«La polvere da sparo è stata importata dai cinesi insieme agli spaghetti. Eppure né l’una né gli altri hanno avuto veramente successo finché a uno non gli è venuta l’idea di separare i due prodotti! Intuizioni, su Rieducational Channel!»
Un paradosso, quello della platinatissima Vulvia interpretata da Corrado Guzzati, utile però a spiegare il civic hacking: un insieme di tecniche e pratiche per usare dati e strumenti già disponibili in maniera da renderli più utili e facili da usare. I civic hacker sono, per usare le parole della celebre definizione di Ben Campbell, programmatore e attivista, «citizens developing their own applications which give people simple, tangible benefits in the civic and community aspects of their lives».
Persone che migliorano la vita pubblica di altre persone. E lo fanno senza avere nulla indietro, solo perché credono fermamente nella filosofia dell’OpenGovernment e nella logica del Do it yourself. Se il governo aperto, però, spesso resta un traguardo cui tendere, un’utopia piuttosto che un dato di realtà, è anche vero che proprio un certo limite nella diffusione degli open data è diventato un’occasione di creatività. «Il web – spiega nel proprio blog webconoscenza.net Gianluigi Cogo, autore di La cittadinanza digitale – è già disseminato di dati trattati e formattati ma, pur sempre disponibili […], basta hackerarli. Ecco che il Civic Hacking non si limita più in una mera filosofia di coprogettazione ma diventa una vera e propria operazione di spionaggio pubblico. I dati ci sono, serve il permesso per usarli? Credo di no!».
Il civic hacking è ispirato al modello dell’innovation without permission, l’innovazione che non bussa alla porta, non chiede se si può, ma è estremamente pratica. Semplicemente accade. Si tratta di un’ipotesi politica d’avanguardia perché, spiega David Osimo, uno dei tanti italiani senza-patria, che se ne è andato altrove per sperimentare le proprie idee sulla rete, «il government 2.0 permette agli innovatori di realizzare le cose senza dover aspettare e bypassando i filtri della burocrazia».
Oppure, come accade nei casi più drammatici, l’hacktisvismo nasce nelle pieghe dei governi più oscuri, nei più impensati spazi di libertà. Come è accaduto, per esempio, nel caso, ormai celebre, di Ushahidi. Giovanni Ziccardi, autore di Hacker. Il richiamo della libertà, per esempio, racconta così il progetto premiato nel 2010 come Humanitarian of the Year: «David Kobia, un ragazzo di 35 anni espatriato dal Kenya per studiare informatica all’Università dell’Alabama, ha creato e sviluppato il progetto open source Ushahidi, che in swahili significa testimone. Raccoglie segnalazioni, testimonianze, diari e report di cittadini e li presenta su una mappa interattiva affinché frodi e brogli elettorali, o episodi di violenza etnica, possano essere più facilmente denunciati […] Ushahidi si è dimostrato efficace durante le elezioni in Sudan, per documentare violenze a Gaza e per assistere i soccorritori dopo il terremoto di Haiti».
L’occasione della nascita di questo software fu quando nel 2007 si registrarono gravi disordini in Kenya dopo le elezioni presidenziali e Mwai Kibabi impose il silenzio mediatico: un enorme blackout in tutta la nazione. Kobia era in Inghilterra e da là decise di aiutare il proprio popolo a raccontare, raccontarsi e denunciare, per questo ideò un sistema di tracciamento su una mappa di quello che stava capitando nel suo paese. Ecco l’hacking: pensare al di fuori degli schemi. Ziccardi, il quale ha raccolto numerosi profili di hacker andandoli a cercare tra i protagonisti della fanzine Phrack Magazine, ricorda tra le comunità di attivisti orientate a fini di benessere sociale, anche DigiActive. Una piattaforma amplissima, dove anche chi non ha dimestichezza con l’attivismo può sentirsi coinvolto e utilizzare gli strumenti già disponibili on line e i social network. Tra i numerosi link che rimandano a movimenti, come My Hearts in Accra, o Movements.org, ci sono anche piccole guide per l’attivismo digitale, semplici da capire e facili da praticare. Oppure c’è il sito del Chaos Computer Club, storico collettivo tedesco che ogni 4 anni organizza il Chaos Communication Camp, un evento imperdibile per gli attivisti più smanettoni.
Marco Calamari, autore di Cassandra Crossing, su Punto Informatico, lo descrive così: «Nei tendoni [ndr: allestiti in un grande aeroporto militare] ci sono un sacco di occasioni di socializzare e di bere una birra insieme, scambiandosi informazioni che solo qui si possono trovare e frequentando interessanti workshop auto-organizzati». Il club si rese famoso, anni fa, in Germania, «dove – racconta Ziccardi – portò avanti azioni eclatanti per mostrare a tutti la debolezza del sistema pubblico, delle grandi banche di dati, dei progetti di raccolta di impronte digitali». In Italia, invece, oltre alle vicende più eclatanti legate ad Anonymous, Ziccardi ricorda il progetto Anopticon a Venezia, che oltre al senso civico propone anche di impossessarsi di nuovo del territorio. «Si tratta – spiega – di una azione di mappatura di tutte le telecamere presenti in città per ideare percorsi e itinerari lontani dal fuoco delle riprese».
Eppure, anche se il fenomeno è esploso non è altrettanto solida l’ipotesi per cui il civic hacking funzioni davvero. Malcolm Gladwell, per esempio, grande esperto di rete e autore di The Tipping Point, circa un anno fa ha pubblicato un lungo articolo per il New Yorker in cui sostiene la debolezza dell’attivismo digitale. «È tutto meraviglioso: c’è una grande forza nei legami deboli – scrive – ma raramente portano a forme di attivismo a alto rischio. […] Dal momento che le reti non hanno una leadership centrale, né una precisa gerarchia, hanno molte difficoltà a ottenere consenso e a raggiungere dei risultati. Non sanno pensare in modo strategico». Ma fuori dagli steccati si. Come ricorda Carlo Gubitosa in Spaghetti Hacker: «I nostri nonni hanno hackerato per noi i segreti della terra, hanno smontato e rimontato pezzo a pezzo il puzzle della natura, hanno cercato di capire e modificare quello che avevano tra le mani. Lo stesso gorgonzola può essere visto come una versione hackerata o craccata del formaggio, che un contadino un po’ più hackerdegli altri ha provato a mangiare anziché buttarlo nella spazzatura». Ecco, i civic hacker esistono da sempre. Ora hanno solo qualche (potente) strumento in più.