Sia chiaro, quando la casa brucia ogni secchio d’acqua per spegnere il fuoco è bene accetto. Questo vale anche per il “Manifesto delle imprese”, promosso da una Confindustria che deve riprendersi dallo smarrimento dell’abbandono di Fiat. Pur sapendo che, domato l’incendio, ci troveremo – comunque – davanti a macerie fumanti. Tanto che l’apprezzamento nei suoi confronti sembra molto politichese: l’abbandono definitivo del fronte berlusconiano da parte dei confindustriali (e la conseguente irritazione degli abbandonati nei confronti di chi per anni ha retto loro bordone ricavandone non trascurabili vantaggi).
Del resto era proprio il primo senatore Agnelli a teorizzare che “l’impresa è governativa per necessità”. Sicché la mossa di Emma Marcegaglia potrebbe segnalare il riposizionamento suo e dei suoi nel dopo-Berlusconi. Sull’autorevole scia del cardinale Bagnasco.
In effetti il celebrato Manifesto non è altro che una proposta per “fare cassa”, utilizzando le leve finanziarie e fiscali e contraendo l’area dei diritti e del welfare. Con la ciliegina della “patrimoniale” a dare una spruzzata di solidarietà (tanto nessuno è davvero intenzionato a vararla).
Neppure una parola sul fatto che da decenni il nostro sistema d’impresa ha continuato ad avvizzire, non riuscendo a trovare nuova spinta propulsiva dopo la catastrofe del modello della Grande Impresa pubblica e l’esaurimento dell’esperienza distrettuale canonica. Come non hanno mancato di segnalarci gli indicatori relativi alle quote di mercato mondiali del Made in Italy: se nel 1990 eravamo il sesto Paese esportatore (5%) nel 2001, anno in cui si stipula a Parma il patto di sangue tra il Cavaliere e gli industriali, si era già scesi all’ottava posizione (3,9%). Oggi ci attestiamo sotto il 3% e ci scavalca persino la Corea del Sud.
Sicché preoccupa che il mondo dell’impresa non spenda una parola sul come far ripartire l’impresa (compreso il battagliero proclama/inserzione di Diego Della Valle “Politici ora basta”, stupefacente più per le sgrammaticature che per la qualità di analisi). Al di là delle elucubrazioni ermetiche, un’economia dinamica è quella che si dimostra capace di produrre beni e servizi che qualcuno ritiene interessante acquistare. Ebbene, sono decenni che l’Italia non tira fuori uno straccio di prodotto nuovo. E il modo di affrontare il problema si chiama “politica industriale”. Tema assente nel Manifesto.
Per un Paese a radicata tradizione manifatturiera come il nostro, operare scelte che tengano conto delle dinamiche della domanda mondiale alla luce dei cambiamenti in atto: i settori e/o segmenti (le famose nicchie) in crescita. Questo impone, oltre le misure orizzontali, valide per l’intero sistema produttivo, anche applicazioni verticali; ossia individuare le aree in cui riteniamo possibile essere competitivi. Per dire, nel sistema globale i settori più promettenti sono il famaceutico e le biotecnologie, l’aerospaziale come le nuove energie e la salvaguardia ambientale. Ma anche comparti tradizionali rinnovati, tipo il turismo e l’artigianato.
Del resto la nuova politica industriale necessita di agenzie di collegamento (trasferimento) tra ricerca e impresa (come lo Stenbeis Stiftung di Stoccarda che oggi accompagna la crescita tecnologica di 10mila piccole imprese tedesche). Infatti anche a questo proposito le carte confindustriali tacciono. Preferiscono riproporci la tiritera su quelle liberalizzazioni/privatizzazioni, che in assenza di regolazione, si rivelano greppie formidabili per i liberalizzatori/privatizzatori.
È di queste ore la notizia che Corte dei Conti e Guardia di Finanza stanno indagando sulla privatizzazione dell’Azienda Municipale Trasporti di Genova, fortemente voluta dall’allora sindaco Giuseppe Pericu. In particolare una serie di consulenze sospette. Da qui la contestazione di danno erariale all’ex sindaco per sei milioni di euro.
E intanto la presidente Marcegaglia, mentre ripropone queste favolette liberistiche tipo mela avvelenata, non sente una vocina che le mormora all’orecchio Alitalia…?
Il Fatto Quotidiano, 2 ottobre 2011