Economia & Lobby

Marchionne: “Fiat esce da Confindustria” <br/> Marcegaglia: “I motivi non stanno in piedi”

Come preannunciato, il gruppo torinese abbandonerà l'associazione degli industriali a partire dal 2012. La motivazione ufficiale è il timore di un dietrofront sulla flessibilità. Ma l’addio, in realtà, è solo un’altra inevitabile tappa di avvicinamento a Detroit

“Ciao Emma, noi ce ne andiamo”. L’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne non ha usato ovviamente un linguaggio così diretto. Ma il senso della missiva è in realtà tutto qui. La casa torinese abbandonerà a partire dal 2012 il salotto dell’industria italiana per andare ad accomodarsi, si intende, nel più promettente lounge di Detroit. Detto fatto, insomma, come si era ampiamente capito già nei mesi scorsi quando lo stesso ad italo-canadese aveva lanciato segnali di malessere solo apparentemente ambigui ma, in realtà, del tutto chiari e cristallini. “Fiat (…) – spiega oggi Marchionne in una lettera aperta alla numero uno di Confindustria Emma Marcegaglia – non può permettersi di operare in Italia in un quadro di incertezze che la allontanano dalle condizioni esistenti in tutto il mondo industrializzato”. Una frase che dice tutto quello che c’era da dire, dalle motivazioni di facciata alla realtà di fondo. Quella stessa realtà evidenziatasi tempo addietro con l’avvio dell’operazione Chrysler, il tassello fondamentale di quel progressivo disimpegno italiano del Lingotto destinato a concretizzarsi in tempi relativamente brevi.


Video di Giovannij Lucci

Nella sua lettera pubblicata oggi, Marchionne ha battuto sul tasto che conosce meglio: quello dell’incertezza sulle riforme. Il riferimento corre al dibattito apertosi dopo l’approvazione del famoso articolo 8 della manovra governativa, quello, per intenderci, che mette nero bianco il concetto stesso di “contrattazione collettiva di prossimità”, in pratica la licenza di derogare alle norme consolidate che disciplinano le relazioni sindacali all’interno delle aziende e che, sostiene il mondo industriale, dovrebbe aprire la strada a un nuovo modello di flessibilità per le imprese. A Marchionne, si intuisce dalla lettera, non sarebbe andato giù il tentennamento di alcuni settori produttivi troppo inclini, secondo lui, a ricercare eventualmente un compromesso con le parti sociali. L’amministratore delegato, insomma, non sarebbe più disposto ad aspettare con il rischio di dover cedere gioco forza a “pericolosi” (il corsivo è nostro) compromessi, preferendo, quindi, sciogliere ogni vincolo con l’interlocutore principe di governo e sindacati, ovvero la stessa Confindustria. Ma la motivazione, in realtà, non regge minimamente.

Il concetto, del resto, è stato ribadito dalla stessa Marcegaglia, che questo pomeriggio è intervenuta a Bergamo: “Pur rispettando la decisione perchè Confindustria è una libera associazione di imprese, non condividiamo le motivazioni di Marchionne in base alle quali ha deciso di uscire dalla nostra associazione. Mi ricordo – ha continuato di fronte alla platea degli industriali – che Marchionne mi aveva mandato una lettera a fine giugno, dopo l’accordo interconfederale del 28 giugno -ha spiegato Marcegaglia- dicendomi che apprezzava l’accordo e aveva bisogno della sua validità retroattiva degli accordi di Pomigliano e Mirafiori e che se questo non fosse accaduto sarebbe uscito da Confindustria. Oggi -ha aggiunto- grazie all’art. 8 l’effetto retroattivo di Pomigliano e Mirafiori c’è. Marchionne dice che la sottoscrizione dell’accordo interconfederale avrebbe depotenziato l’art. 8 ma questo non è vero”. Marcegaglia ha poi spiegato di aver ricevuto il parere dei tre giuslavoristi italiani importanti, vale a dire Ichino, Maresca e Della Aringa “che dicono esattamente il contrario e cioè che la sottoscrizione definitiva del 28 giugno non mina minimamente la portata e l’efficacia dell’art. 8, anzi in un certo senso lo rafforza e quindi questo tipo di motivazioni non stanno in piedi dal punto di vista tecnico”.

Giova ricordare, in questo senso, il contenuto di un’altra lettera resa pubblica in questi giorni e parimenti destinata a far discutere. Si tratta, ovviamente, della missiva a firma Draghi-Trichet che la Banca centrale europea ha inviato al governo italiano con l’obiettivo di tracciare la rotta verso la realizzazione di quella contropartita al salvataggio occulto dei conti pubblici attraverso la magica accoppiata mercato secondario/eurobond. La strategia, hanno chiarito il presidente Bce e il suo successore, consiste essenzialmente in due cose: privatizzazioni di massa nel panorama degli assets statali e liberalizzazione del mercato del lavoro. Una strada che, soprattutto nel secondo caso, appare per altro tracciata da tempo. Nella sostanziale paralisi decisionale che ha caratterizzato tutta l’attività governativa con l’eccezione del fronte (anti)giudiziario, una sola cosa sembra essersi mossa con rapidità: proprio la riforma della “disciplina” industriale. A partire dal contestatissimo accordo di Mirafiori del gennaio scorso, si è assistito a una svolta epocale che l’intesa confederale di giugno prima, e l’approvazione dell’articolo 8 poi, hanno confermato in pieno. Aggiungendo a tutto questo il diktat della Bce, risulta quindi davvero difficile pensare che il vero problema di Marchionne possa essere oggi un eventuale deficit di flessibilità. Tanto più che le questioni di fondo, come noto, sono da sempre ben altre.

Fiat sta scalando Chrysler ma il potere decisionale resta concentrato negli Stati Uniti dove a difendere gli interessi dei lavoratori/elettori ci sono due sponsor inattaccabili come Barack Obama e il sindacato locale che, a differenza della Fiom, è anche azionista della compagnia. La Fiat, in altre parole, è benvenuta ma non per questo può dettare legge. Il paradosso di fondo è in pratica tutto qui. Per questo l’azienda torinese è destinata a spostare i suoi interessi al di là dell’Atlantico, per questo Marchionne non può permettersi di mettere radici nella Penisola. Tanto più che è proprio quest’ultima, dati alla mano, a non poter offrire grandi opportunità di sviluppo. Il mercato italiano, aveva scritto 11 mesi fa l’Economist, è troppo “piccolo e poco competitivo per garantire una sopravvivenza a lungo termine”. “In Italia – evidenziava inoltre il settimanale – , 22 mila lavoratori distribuiti su cinque fabbriche producono ogni anno 650 mila automobili. Nella principale installazione Fiat in Brasile, appena 9.400 dipendenti ne realizzano 750 mila. L’impianto polacco fa ancora meglio: 6.100 lavoratori per 600 mila vetture. E’ facile immaginare che la Fiat possa lasciare appassire i propri impianti (in Italia – ndr) iniettando nuovi investimenti nei Paesi caratterizzati da una crescita delle vendite e da una produttività più alta”.

Oggi Marchionne ha anche confermato i piani di sviluppo (sic) in Italia annunciando l’avvio della produzione a Mirafiori (dove è confermata la presenza dell’Alfa Romeo Mito) di un suv a marchio Jeep ma solo a partire dalla seconda metà del 2013. Non esattamente un maxi progetto di rilancio su scala nazionale. “Mi pare che l’AD della Fiat continui a giocare con modelli che continuano a modificarsi e con un mercato che ad oggi continua a dargli torto – ha commentato oggi il responsabile nazionale auto della Fiom Giorgio Airaudo interpellato dall’Adnkronos – . Con un solo prodotto nuovo Mirafiori non ha un futuro garantito mentre noi continuiamo a non sapere nulla sui prodotti che verranno sviluppati in Italia sia per Fiat sia per Chrysler”. Aggiungendo quindi “un forte rischio di depauperamento degli enti centrali auto della Fiat”, ha concluso Airaudo, “i lavoratori sono destinati nella migliore delle ipotesi ad un lungo anno di cassa integrazione”.

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