“Venti giorni per salvare Magli”. Questo è il tenore dei comunicati stampa delle istituzioni, coinvolte da giorni in una corsa contro il tempo per non fare chiudere un’azienda storica del made in Italy targato Bologna, il calzaturificio Bruno Magli. Il prossimo incontro tra le parti, fra poco meno di tre settimane, con tutta probabilità confermerà la fine di un’impresa che ha fatto la storia della scarpa italiana nel mondo. A credere con ostinazione in un rilancio in extremis solo i sindacati, ma la speranza ormai è davvero ridotta al lumicino. Le intenzioni dell’azienda dopo tutto erano chiare fin dai giorni scorsi: mobilità per tutti gli operai entro il 15 ottobre e disdetta dell’affitto del capannone entro il 2012. Inutile l’incontro di ieri mattina tra il management e le istituzioni: Provincia, Comune di Bologna e Regione. Per tutti ancora 30 giorni di tempo per cercare una soluzione, disponibilità dell’azienda nell’uso di eventuali ammortizzatori sociali, ma poi si chiude comunque.

Quasi impossibile, ormai, salvare la permanenza del marchio sul territorio. Magli se ne andrà a Milano, o dove vorrà, e potrà così concentrarsi sulla nuova strategia annunciata dall’amministratore delegato Armin Muller: “Un’azienda di solo brand business“. Tradotto: nuovi punti vendita all’estero e uffici a Milano dove disegnare e promuovere le scarpe e gli altri prodotti. Della produzione poco importa. Cina o Bologna, quello che conta è il brand, il marchio riconosciuto da chi compra le scarpe spendendo centinaia e centinaia di euro a paio. Tutto il resto, visto i pessimi risultati economici, deve essere tagliato. Dipendenti compresi.

Lo conferma l’assessore provinciale alle attività produttive Graziano Prantoni che parla di un “management dichiaratamente incapace“. “Loro stessi hanno detto di non essere riusciti a raggiungere gli obiettivi prefissati”, spiega Prantoni che si dice pronto a muoversi per agevolare in tutti i modi la salvaguardia dei quasi 100 posti di lavoro. “Magli è in crisi da anni, ormai hanno accumulato un debito di 30-35 milioni di euro sempre ripianato dalla proprietà”. Che però non è più italiana da tempo (dal 2001 il fondo Opera, oggi l’inglese Fortelus Capital) e che evidentemente ha deciso di mettere fine ad un’avventura iniziata male e continuata peggio. “Non si può più trattare con loro”, spiega Prantoni che, come soluzione, vede solo un ipotetico acquisto da parte di un imprenditore con la voglia di rilanciare un marchio che gode ancora di fama internazionale.

Insomma sembra proprio che i cartelli e gli slogan degli operai, ieri in protesta di fronte alla sede della Regione, siano condivisi anche dai loro rappresentanti. “Siamo noi a pagare i vostri sbagli”, urlavano oggi aspettando l’assessore regionale Muzzarelli. Che ha avuto parole di fuoco: “No a chi usa il marchio Magli per andarsene e fare business speculativo. I lavoratori sono persone in carne e ossa, non numeri”. Tutto vero, ma la situazione del calzaturificio non è una novità. Da 10 anni è in mano ai fondi di investimento, e da 10 anni le cose vanno di male in peggio. “La storia ci insegna che quando le aziende calzaturiere vengono cedute ai fondi le cose non possono che peggiorare”, spiega Andrea Guolo, giornalista che da anni si occupa del settore e che assieme al presidente di Federcalzature, Massimo Donda, ha scritto nel 2007 il libro “I passi del successo”.

E le cose sono davvero andate di male in peggio. Questa la storia: la famiglia Magli firma ufficialmente per la cessione dell’azienda il 10 settembre 2001. Il giorno dopo cadono le Torri Gemelle, l’economia precipita e così le vendite nel settore del lusso. L’acquirente, il fondo di investimento Opera, fa fatica a far quadrare i conti con un’azienda atipica come la Magli, che da decenni ha rinunciato ad esternalizzare la produzione e si è portata invece gli artigiani in casa. E infatti in via Larga, sede del calzaturificio, c’è tuttora il meglio della capacità professionale del calzaturiero in Italia, come ai tempi dell’ormai mitico Cavaliere Bruno Magli. Niente da fare per Opera e il management. I risultati non arrivano. Dal 2002 al 2004 la Magli perde il 27% del fatturato e inizia a non assumere più. Un’emorragia continua che continua anno dopo anno, coperta dal blasone di un marchio conosciuto in tutto il mondo. Ma i numeri restano numeri. Nel 2004 il debito totale supera i 70 milioni. Ma la quadra non arriva nemmeno col nuovo passaggio di proprietà. Il fondo di investimento Fortelus Capital non riesce a governare come vorrebbe i bilanci aziendali nonostante ormai solo la linea donna sia prodotta direttamente in casa e il resto già tutto affidato a fornitori esterni.

Ma allora perché chiudere a Bologna se poi la produzione passerà ad altri stabilimenti, con ogni probabilità italiani? Una domanda che questa mattina si ponevano molti dei lavoratori e delle lavoratrici della Magli. Perché la qualità di produzione richiesta è tale che non sembra possibile una “soluzione Cina”. Servono artigiani specializzati e preparati. Per spiegare la scelta del fondo Fortelus sono molte le considerazioni da fare. Per iniziare a Bologna non c’è un distretto della calzatura. Un imprenditore che volesse acquistare la fabbrica di via Larga si troverebbe ad operare con costi più alti dei concorrenti. Insomma a mancare è la filiera e tutti quei servizi e quelle professionalità che altri si trovano dietro casa. E che, per chi produce sotto le Due Torri, bisogna andare a cercare fuori provincia. Poi c’è la struttura stessa della Magli. Novanta artigiani specializzati nel fare scarpe tutti diretti dipendenti del marchio. Un peso troppo grande per competere in un settore che da almeno 30 anni ha abbandonato il modello della grande fabbrica a favore del contoterzismo. Un modo per risparmiare e scaricare i costi della competizione sulle micro imprese del territorio. Magli così non ha fatto ma ora il conto lo dovrà pagare tutto sulla propria pelle, anzi su quella degli operai. Che però ci credono ancora e testardamente chiedono il rilancio, dicendosi disponibili a sacrifici e a saturare la capacità produttiva del loro stabilimento.

“Intanto non è così vero che manca la filiera della calzatura – argomenta Giordano Giovannini, segretario generale della Filcem-Cgil bolognese. “Ci sono aziende floride – dice – che fanno scarpe a Cesena e a Ferrara, non così lontano e comunque non fuori regione”. Il problema, pare di capire, starebbe allora tutto in una gestione che forse non è stata all’altezza e che in passato è stata lasciata troppo libera dalla proprietà. “E’ da anni che chiediamo un confronto sui risultati e su come rilanciare l’azienda”, spiega il sindacalista che nell’immediato non vuole sentire parlare di vendere il calzaturificio a capitani coraggiosi o a principi azzurri. “Dobbiamo pensare alla stagione autunno-inverno perché la produzione è in forte ritardo”, spiega aggiungendo di voler mettere tutti al lavoro già questo mese, e senza il ricorso alla annunciata cassa integrazione in deroga.

Che comunque, se le cose andassero male, potrebbe comunque arrivare. Una soluzione tampone che però non potrà salvare il calzaturificio. I sindacati chiedono di cercare un compratore disposto a rilanciare l’azienda. Possibile ma molto difficile. Oggi chi investe nel mondo delle calzature lo fa all’estero. Per Alberto Vacchi, presidente di Unindustria, “Sarebbe già molto mantenere la direzione di Magli a Bologna”. Per gli operai si vedrà.

di Giovanni Stinco

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