Forse un altro mondo è possibile. Forse dall’apocalisse può nascere davvero una nuova civiltà. Domenica sera rivoluzionari segnali di vita sono piovuti dagli spalti dello Juventus Stadium. Un’ignota (e benedetta) cellula eversiva ha esposto uno striscione di ispirazione pasoliniana. Recitava: “Il calcio è un linguaggio con i suoi poeti e prosatori”. Da non credere. Da stropicciarsi gli occhi. Da pretendere la chiusura anticipata del match. Come fece negli anni Settanta Ezio Vendrame, il fantasista maudit, oggi scrittore cult, durante una partita di B (“Dal prato vidi Piero Ciampi sedersi in tribuna, corsi dall’arbitro a dirgli :’Non possiamo giocare a palla davanti a un poeta’”).

Insomma, mentre Marchisio randellava il Milan, esaltando la torcida bianconera, qualcuno ha pensato di evocare lo spirito di Stukas, il nome di battaglia del Pier Paolo Pasolini mezzala, quello che uccellava Citti e Davoli nella polvere dei campetti romani o Reja e Galeone nelle spiagge assolate di Grado, quello fissato col “doppio passo” di Biavati, quello che delirava per Marchesi e Sansone, Reguzzoni e Andreolo, le colonne del “Bologna piu’ potente della storia”.

Perchè Pasolini adorava il calcio. Lo giocava allo sfinimento, piu’ volentieri di giorno perché senza occhiali non ci vedeva granchè. Era tecnico, saettante, sempre nel vivo dell’azione. Circondato dal rispetto, dall’ammirazione dei compagni. E corretto, mai un insulto, uno sgambetto agli avversari. Ecco, magari se perdeva s’immusoniva di brutto, gli successe anche dopo averle sonoramente prese dalla troupe di Bernardo Bertolucci nelle pause delle riprese di Novecento e delle Centoventi giornate di Sodoma.

E quel pensiero, liberato a sorpresa nella notte del posticipo, ci ha ricordato in che modo Pasolini ha catalogato il gioco e i suoi protagonisti. “Il linguaggio del calcio – sosteneva – è Rivera che tocca la palla in un certo modo”. L’invenzione. Il ricamo. Il ghirigoro del genio. E’ solo in quell’attimo che si manifesta il linguaggio. Quello del rossonero, per lui, era un calcio in prosa, ma poetica, da “elzeviro”. Come quello di Mazzola, con una differenza: “E’ piu’ poeta di Rivera, ogni tanto interrompe la prosa ed inventa lì per lì due versi folgoranti”. E ancora: Riva gioca un calcio in poesia, è un ‘poeta realista’, Bulgarelli gioca un calcio in prosa, è un ‘prosatore realista’”.

Questi erano i suoi codici. E il dribbling, il gol, gli attimi che lo entusiasmavano come un appassionato qualsiasi. “Il gol è ineluttabilità, folgorazione, stupore. Proprio come la parola poetica. Il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell’anno. Anche il dribbling è di per sé poetico. Infatti il sogno di ogni giocatore è partire da metà campo, dribblare tutti e segnare. Se si può immaginare una cosa sublime è proprio questa. Ma non succede mai. E’ un sogno, che ho visto solo realizzato nei ‘Maghi del pallone’ da Franco Franchi”.

Ma Pasolini si divertiva anche a tranciare giudizi impietosi (“Chinaglia è una mezza punta goffa e delirante, che in tal ruolo non vale neanche un decimo di quello che vale il delizioso, lampeggiante Bettega”) e a confessare “sbandate” improvvise (“Capello è un grande. Perché sa fare rifiniture in velocità. Il segreto del gioco moderno, sul piano individuale, è l’esattezza massima alla massima velocità, correre come pazzi ed essere nello stesso tempo stilisti”). Sono concetti espressi quarant’anni fa. Ma luccicano come pepite appena dissotterrate. A conferma che la modernità del pensiero pasoliniano continua a spandersi ovunque. Persino nel calcio, persino nelle curve degli stadi.

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