In questo periodo di deliri neo-secessionisti, portati avanti da disperati in cerca di recuperare consensi (giustamente) perduti, possiamo notare che la globalizzazione sta in effetti generando una necessità sempre più forte di tornare in contatto con le proprie tradizioni, i propri usi e il proprio territorio. A volte, però, tutto questo viene confuso con l’odio a priori verso lo straniero, il diverso, l’”intruso”, tanto da portare alcuni partiti ed alcuni gruppi di persone a fare proprie espressioni quali “Padroni a casa nostra”.
Questa espressione, legittima se pronunciata da popoli o nazioni occupate da invasori o da “esportatori di democrazia”, suona parecchio ipocrita quando a pronunciarla sono persone che, in varie parti d’Italia, disprezzano o addirittura odiano gli immigrati per poi sfruttarli e assumerli in nero nelle proprie aziende o nelle proprie case. Un evidente fraintendimento, poi, se si pensa che le nostre abitudini, i nostri consumi e i nostri stili di vita portano milioni di persone, nel mondo, a non potere essere padrone in casa propria.
Pensiamo, ad esempio, a tutti quei nigeriani in pessime condizioni di vita grazie alle esplorazioni e alle trivellazioni petrolifere in casa loro attuate da decenni da compagnie italiane, europee o americane; o a quelle popolazioni della Repubblica Democratica del Congo devastate da guerre nate per l’accaparramento del Coltan, minerale essenziale nella costruzione di batterie per cellulari e pc portatili, di cui il loro territorio, appunto, è ricco; oppure pensiamo al destino, già deciso, di tutte le tribù incontattate di nativi che, quando hanno la fortuna di sopravvivere anche a un semplice raffreddore ricevuto in dono dall’arrivo del progresso, si vedono levare da sotto gli occhi la loro casa, la foresta amazzonica, fonte esauribile di legname, di petrolio e di vasti spazi per allevamenti di bovini che diventeranno lussuosi parquet, plastica/carburante e omologati hamburger per bisunti fast-food nelle nazioni “civili”.
Siamo davvero sicuri, quindi, di poterci lamentare di non essere padroni a casa nostra se ci sono immigrati che, in molti casi non così contenti di stare lontani dal proprio Paese di origine e dai propri cari, se ne stanno qui a fare tutto ciò che noi, impegnati a volere diventare attori, cantanti, veline e giornalisti non vogliamo più fare? Siamo davvero convinti del fatto che tutte queste persone se ne starebbero qua a curare i nostri nonni o a pulire i nostri cessi, se a casa loro ci fossero le condizioni adatte ad avere una vita minimamente dignitosa?
Certo ci sono moltissime ragioni dietro alle migrazioni, ma molte di queste persone padrone a casa loro non lo possono più essere da parecchio tempo. Almeno da quando la (nostra) civiltà li ha raggiunti, già dai tempi del colonialismo, prima imponendo con la forza i nostri modelli, poi facendogli credere che il nostro stile di vita è il migliore possibile.
Il cambiamento dovrebbe partire anche dalla conoscenza di situazioni nel mondo che, seppure lontane dai nostri occhi, sono comunque ricollegabili alle nostre scelte. Perché è tutto interconnesso, e l’immigrato africano che “ci disturba” provando a venderci una collanina in un parcheggio potrebbe aver lasciato casa sua proprio a causa dei conflitti nati dalla presenza di aziende petrolifere italiane che sfruttano da diversi decenni le risorse del suo territorio.
L’intenzione non è qui di fare la morale a tutti noi inconsapevoli ed egoisti consumatori globali, né quella di difendere a priori e con inutile buonismo tutti coloro che decidono di emigrare, ma quella di considerare che la possibilità di sentirsi padroni a casa propria è un diritto che non abbiamo solo noi occidentali, ma che accomuna o dovrebbe accomunare tutti i popoli del mondo.
Le migrazioni e la nascita di società sempre più multietniche e multiculturali è un processo che ormai non si potrà arrestare. Vale quindi la pena cercare di conoscersi al meglio, smettendola di usare come slogan ignoranti e ottuse espressioni preconfezionate. Parole aggressive e vuote di significato che non risolvono nessun problema, ma che creano solo tensioni e disgregazione sociale.