Se c’è un filosofo che più d’ogni altro è letto, discusso e studiato all’estero, quello è senza dubbio Giorgio Agamben. E a ragione. Certo, anche in Italia la sua opera è considerata una delle più originali e interessanti degli ultimi cinquant’anni. Eppure, per strani e misteriosi dispositivi, sembra quasi che sia molto più noto all’estero che non in patria.
Tanto per fare un esempio: quando Agamben tiene una conferenza a Parigi, per ascoltarlo si accalcano centinaia di persone quasi fosse una rockstar. E basterà cercare su Wikipedia per scoprire come le voci in inglese, o in tedesco, siano molto più accurate di quanto non lo sia quella italiana. Insomma, questo per dire che ogni suo libro è atteso dalla comunità filosofica come una sorta di evento, dal Sudamerica al Giappone.
Ecco dunque che arriva in questi giorni nelle librerie (per ora quelle italiane) il suo ultimo Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita per l’editore Neri Pozza. A prima vista il tema potrà sembrare peregrino. In realtà s’inscrive pienamente, come arguto tassello (un altro è previsto a gennaio con Opus Dei. Archeologia dell’ufficio, per Bollati Boringhieri), in quel progetto teorico iniziato nel 1995 con il libro Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita (Einaudi).
Ovvero, banalizzando e schematizzando, ripensare le categorie politiche della modernità a partire dalla ricerca intorno alla biopolitica: abbiamo ormai dimenticato la distinzione classica fra vita naturale ed esistenza politica, perciò va indagato con strumenti nuovi quel rapporto che esiste fra il diritto e la vita, cercando modelli e dinamiche impensate di sovranità. Questo il contesto entro il quale si costruisce Altissima povertà.
Ma perché i monaci? Cos’hanno di speciale da esser presi a oggetto di studio in una ricerca sul rapporto fra diritto e vita? Il filosofo lo spiega con chiarezza sin dalle prime righe: il monachesimo è il caso esemplare in cui si viene a creare una “forma-di-vita”, ovvero un’esistenza così strettamente legata e indissolubile alla regola da risultarne inseparabile. In questo senso la vita dei monaci è, essa stessa, la sua forma: forma e vita diventano la stessa cosa, inscindibili, l’una sovrapposta all’altra.
Non solo: c’è un susseguirsi di coincidenze e di sovrapposizioni che ricorrono nell’esistenza nella vita comune praticata in convento, da San Francesco agli altri monaci che segnarono una frattura radicale del cristianesimo nelle sue istituzioni. E queste dialettiche (intese in senso hegeliano) sono la convergenza di tempo e vita, habitus e vita, preghiera e vita, liturgia e vita. Il nucleo decisivo della condizione monastica non è perciò un contenuto o una sostanza, ma una forma – e comprendere questa forma, ci dice il filosofo, significa cercare di nominare quel qualcosa che i monaci mettevano in pratica con la loro vita «il cui senso e la cui novità restano ancora da decifrare e che, proprio per questo, non hanno cessato di riguardarci da vicino».
Non si pensi ad acrobatici esercizi linguistici: Agamben spiega con molta accuratezza e rigore ogni passaggio (impossibile da riportare qui). Ma va notato che se c’è un termine ricorrente che attraversa tutte le pagine, quello è tensione. Già, perché non sfugge al filosofo il paradosso che sottende all’esistenza del cenobio, la comunità di monaci riuniti sotto la medesima regola in un monastero: cioè che esistono due tensioni opposte, una volta a risolvere la vita in regola, l’altra tesa a trasformare la regola in vita. Tutto è regola e ufficio e forma, quindi non c’è più spazio per la vita che sembra scomparire. Ma tutto si fa vita, perché le leggi e i precetti si trasformano in vitali. Se c’è un’ambiguità di fondo rappresentata da queste tensioni è proprio la specificità del monachesimo, quella forma-di-vita inaudita e nuova che i monaci hanno ostinatamente cercato di realizzare (e, scrive Agamben, hanno ostinatamente mancato).
Ripensare, oggi, quell’esperienza non è un mero esercizio intellettuale. Significa individuare un dispositivo, un paradigma, che il nostro tempo si dimostra incapace di pensare: ovvero l’affermazione di una vita fuori dal diritto. Se si pensa alla nostra esistenza quotidiana, materiale, il tema non sembrerà poi così troppo astratto.