“Silvio come Amanda“. Perseguitati? E chi paga per i quattro anni di carcere sofferti da Amanda e Raffaele?
Non ho letto gli atti del processo e nemmeno la sentenza di primo grado, come il 99,9 % di coloro che si stanno esercitando in acrobatici e sferzanti commenti in un senso o nell’altro. Tuttavia, al di là del merito di questa singola (e singolare) vicenda, vi propongo qualche riflessione generale sulla giustizia italiana:
Primo: se non si ritenesse possibile un ipotetico errore da parte di chi giudica in primo grado sarebbe inutile che esistessero Appello e Cassazione, il cui ruolo fisiologico è proprio controllare e vagliare le decisioni, così da tentare di avvicinare il più possibile la verità processuale a quella storica. Assolvere in Appello, in generale, non è un segnale della patologia del sistema, ma semmai un indizio del suo funzionamento effettivo e delle garanzie del sistema. Se nessuno venisse mai assolto dopo una condanna in primo grado dovremmo ipotizzare o che i giudici di primo grado sono infallibili (e non lo è nessuno, nemmeno quelli di secondo) oppure che in realtà l’Appello si risolve in un falso e vuoto controllo che mette un timbro sulla decisione già presa.
Secondo: che tristezza strumentalizzare questa vicenda per attaccare i pubblici ministeri (la prima pagina di Libero di ieri lascia senza parole); qualcuno dovrebbe ricordare a chi si scaglia contro i pm che:
– c’è ancora la Cassazione che deve stabilire se la decisione dei giudici di secondo grado è corretta;
– in questo caso l’eventuale responsabilità di un giudizio errato sarebbe condivisa anche e soprattutto dai giudici della Corte d’Assise, che è composta da due magistrati e da cinque cittadini “non togati”, e quindi come la mettiamo?
– il giudizio processuale è un’operazione spesso difficile e quindi non è affatto impossibile o raro che due professionisti in buona fede che conoscono le carte possano pervenire a risultati almeno parzialmente diversi, tanto più che per l’assoluzione non è necessaria la sicurezza dell’innocenza ma il ragionevole dubbio che non sia del tutto provata la colpevolezza (non si tratta di due opposti). In altre parole: l’assoluzione in secondo grado non è necessariamente il segnale di gravi errori commessi in primo grado, ma più laicamente l’esito di un ulteriore ripensamento e approfondimento delle carte processuali e delle eccezioni giuridiche; certamente il cambio di decisione non deve essere l’ordinario, ma non per questo è sempre patologico.
Terzo: il vero scandalo è, eventualmente, la durata del processo e conseguentemente della custodia cautelare.
Diciamolo chiaro, o si rinuncia sempre a mettere le persone in carcere prima della decisione definitiva (lasciando liberi di fuggire o reiterare reati anche imputati di gravissimi reati come omicidio, mafia, estorsioni, violenze sessuali), oppure si deve prendere in considerazione la possibilità (rara ma sussistente) che un detenuto venga poi assolto (magari per insufficienza di prove). La vera soluzione è garantire almeno un processo il più rapido possibile. In questo caso si trattava di procedimento molto complesso e inevitabilmente lungo, ma se si evitasse di fare troppi processi inutili e si semplificassero alcuni passaggi potremmo comunque ridurre l’attesa di una decisione definitiva.
Quarto e ultimo: dovremmo essere preoccupati dalla sovraesposizione di queste vicende di cronaca. Tutte queste luci e attenzioni morbose non aiutano noi a comprendere quello che accade in maniera equilibrata e sicuramente non giovano alla serenità di chi deve occuparsi del processo. Ma purtroppo tutto in queste paese è occasione di audience e di polemica strumentale, mentre il rispetto delle persone (imputati e vittime) e delle istituzioni è dimenticato e umiliato.