“Mangiamo e dormiamo. Poi basta, non c’è nient’altro da fare”, si lamenta Kwame, ghanese di 20 anni. E’ uno dei 244 profughi provenienti dalla Libia che questa mattina hanno protestato a Pieve Emanuele, comune a sud di Milano, perché non hanno ancora ricevuto la diaria di 2 euro e mezzo al giorno a cui avrebbero diritto. E perché temono che le loro richieste di asilo vengano respinte. Sono usciti dal gigantesco residence Ripamonti, dove sono ospitati, e per mezz’ora hanno bloccato la strada davanti. Per evitare che invadessero le vie del paese è intervenuto un massiccio schieramento di polizia e carabinieri. La protesta è stata pacifica, ma si aggiunge a quella di venti giorni fa a San Zenone al Lambro. Segno che l’emergenza profughi alle porte del capoluogo lombardo rischia di scoppiare.

Gli immigrati del residence Ripamonti sono scappati dal paese di Gheddafi, dove erano emigrati da Ghana, Nigeria, Somalia, Costa d’Avorio. Qualcuno di loro pure da Bangladesh e Pakistan. Sono sbarcati a Lampedusa cinque mesi fa e il 12 maggio sono stati trasferiti a Pieve Emanuele. “In Libia avevo un lavoro, facevo il muratore”, spiega Kwame. Parla in inglese, con calma. Vorrebbe un’occupazione anche in Italia. Ma ha solo un permesso di soggiorno di sei mesi che presto scadrà. Troppo poco per convincere un datore di lavoro a fargli un contratto. In tasca Kwame non ha nemmeno una manciata di euro per telefonare ai familiari. O per prendere l’autobus. “Alcuni di noi lo hanno fatto senza biglietto e sono tornati con la multa”, racconta.

Dal primo settembre Kwame e gli altri avrebbero dovuto ricevere 2,50 euro al giorno. Non molto, ma abbastanza per avere qualche libertà in più. Quegli spiccioli non sono mai arrivati. Così questa mattina sono scesi in strada per chiedere il pocket money e per ottenere rassicurazioni sulla loro domanda di asilo.

Quasi nessuno di loro parla italiano. La Croce rossa per questo ha organizzato un corso di lingua: due ore al giorno, unico diversivo di giornate altrimenti troppo monotone. Scandite dalla lezione. E dalla distribuzione del cibo, che a molti non piace. “Ci danno sempre riso”, si lamenta Kwame. Pantaloni della tuta e maglietta grigia, ha un cellulare in mano. “Me l’ha regalato una signora fuori dalla chiesa. Lo uso per ascoltare la musica”. I profughi sono vestiti bene. Molti di loro sono in camicia, qualcuno ha pure una giacca scura. “Fin da subito abbiamo distribuito i vestiti – spiega Michele Novaga, della Croce rossa – e anche la gente di Pieve Emanuele è stata molto generosa: spesso passano di qua e lasciano giù qualcosa”.

Che i rapporti con i cittadini siano buoni lo conferma pure Salvatore, a Pieve da 40 anni. “Finora si sono sempre comportati bene, in modo corretto – racconta -. Probabilmente sono state fatte loro un sacco di promesse che non sono state mantenute”.

Oggi, con la protesta, è stata una giornata diversa dal solito. Lo si capisce anche cercando di parlare con Bob. Nigeriano di 30 anni, è uno dei leader dei profughi del residence Ripamonti: “Sono occupato, ho da fare”, risponde subito. Poi si ferma e spiega che lui, in Libia, faceva l’imbianchino: “Qua, invece, nessuno mi dà un lavoro”. Poche parole, prima di fuggire via: la manifestazione si è conclusa da diverse ore, ma Bob deve ancora riunirsi con gli altri per fare il punto della situazione. E poi c’è qualcuno dei suoi compagni che va calmato, tranquillizzato: non tutti questa mattina erano d’accordo a rimanere in strada così poco. Qualche momento di tensione c’è stato pure quando sono stati scelti i quattro della delegazione che è stata ricevuta dal prefetto. Sono tornati con la garanzia che fra pochi giorni riceveranno i soldi. Lo conferma anche il sindaco Rocco Pinto: “Mi sto interessando personalmente per garantire il pagamento del pocket money. Spero che le pratiche burocratiche si risolvano al più presto e che questa protesta non cada nel dimenticatoio. Avevo già previsto che si sarebbe verificato un simile episodio e infatti è da mesi che ho avvisato gli organi competenti, consapevole che la presenza di un gruppo così numeroso di persone con lo status di profughi non è un problema indifferente né facilmente gestibile”.

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