Basta scorrere i commenti che si susseguono alla notizia della morte di Steve Jobs per rendersi conto che comunque la si voglia pensare, questa notte è successo qualcosa di nuovo e importante che ha a che fare con il nostro concetto di società più che con il singolo individuo.
Non starò qui a tessere le lodi della persona e del suo contemporaneo Elogio della follia, o ad attaccare la Mela per la mastodontica produzione in Cina, con seguito di polemiche. Non mi interessano le accuse reciproche di plagio con i rivali della Samsung, o le cause miliardarie per il marchio: quelli sono gli elementi di ogni azienda globale, e assomigliano alla cronaca dei processi a Google, delle cause di Microsoft, della tendenza innata di ogni azienda globale a fagocitare tutto per non fermare la propria espansione.
Eppure, a differenza di Samsung, di Sony, di Google e soprattutto di Microsoft, quella mela morsicata ha qualcosa che tutti gli altri non hanno. Riassume in sè l’importanza, gli eccessi e le storture di un sistema globale che all’occorrenza ha assurto Jobs a paladino della libertà dell’io, del successo industriale planetario, dei mali della globalizzazione. Non poteva esserci simbolo più azzeccato: il bene e il male nell’unico elemento della mela morsicata.
In molti hanno scritto sul nostro sito che lo spazio che abbiamo dedicato a Jobs è eccessivo. Come si fa a definire eccessiva l’attenzione verso un uomo che ha portato una società ad avere più soldi dello Stato (e che Stato, gli Usa!) che la ospita, che ha un valore in borsa di 360 miliardi di dollari. Che ha venduto milioni e milioni di esemplari dei suoi prodotti, milioni di apps, miliardi di canzoni sul suo iTunes.
Certo lo si può odiare, detestare o amare. Ma non si può non tenerne conto: non era mai capitato che un capitano d’industria ricevesse parole così sinceramente commosse come quelle spese dal presidente degli Stati Uniti Obama. Persino Gasparri ha sentito il bisogno di dichiarare che Jobs “gli ha cambiato la vita”. E chissà quanti altri ancora si metteranno in fila per dire qualcosa. Insomma, non era mai capitato che un venditore di computer, per quanto straordinari computer, ricevesse il cordoglio della politica, delle masse, di uomini e donne che depositano fiori nei suoi negozi, mandano messaggi, si incazzano e litigano con chi non la pensa come loro.
Non si può non tenere conto, nel bene e nel male, che fino ad una generazione fa, solo alle rockstar e ai grandi miti della rivoluzione erano concessi funerali planetari. E che oggi questa rivoluzione appartiene ad un marchio commerciale. Prima di Apple ci avevano provato in tanti: rendere il proprio marchio non solo uno status symbol, ma un simbolo sociale. Nike e Adidas ci sono quasi riusciti con le scarpe. Impossible is nothing, diceva la pubblicità della seconda mentre sullo schermo scorrevano le immagini dei grandi atleti e della loro fatica.
Jobs è andato decisamente oltre. Non ha avuto bisogno di mostrare altro che fossero il suo prodotto e se stesso. Dove il primo era assimilato a perfezione, pulizia e originalità, paradosso del prodotto globale uguale a se stesso in ogni angolo del pianeta. E il secondo, l’uomo, diventava un papa laico, un Giovanni Paolo II che crede nel commercio e che espone il suo dolore e la sua fede nel corpo che si consuma.
Ora Jobs è morto, ma la sua rivoluzione è compiuta. Che ci piaccia o no, qualcuno dei nostri figli in futuro attaccherà il suo poster alla parete, laddove noi avevamo messo Che Guevara o gli AcDc. Think different…