Scontri tra manifestanti e polizia, arresti (18 per gli organizzatori, molte decine per alcuni testimoni) e polemiche. E’ finita così la marcia degli ‘indignados’ statunitensi, che da tre settimane occupano lo Zuccotti Park. La violenza quasi al termine della manifestazione (iniziata nel pomeriggio e terminata alle 21, le tre del mattino in Italia), quando il corteo pacifico è giunto nei pressi della zona off limits della borsa di Wall Street. Alcuni manifestanti hanno cercato di forzare gli sbarramenti e la polizia ha reagito: ha circondato la testa del serpentone (in prima linea anche il regista premio oscar Michael Moore) e c’è stato l’incontro ravvicinato. Violento.
Prima di allora, la marcia è stata non solo pacifica, ma anche altamente simbolica. Dopo i contatti dei giorni scorsi, infatti, diverse unions sono scese in piazza insieme ai giovani di “Occupy Wall Street“. Ieri sera, nella marcia che ha percorso una decina di isolati di Lower Manhattan – da Foley Square, accanto a City Hall, sino a Zuccotti Park, quartier generale del movimento – si sono visti migliaia di aderenti ai sindacati più influenti di New York e d’America (tra gli 8 e i 12 mila manifestanti, dicono gli organizzatori).
C’erano gli iscritti all’AFL-CIO, la maggior organizzazione dei lavoratori americani; gli United Auto Workers e la Transit Workers Union (che rappresentano gran parte dei conducenti d’autobus di New York); la United Federation of Teachers, cui fanno capo gli insegnanti delle scuole pubbliche della città; gli infermieri delle National Nurses United. E ancora il Professional Staff Congress della City University, con un patrimonio di 20 mila aderenti, tra professori e staff tecnico e amministrativo.
Il popolo dei sindacati, insieme a migliaia di giovani ma anche a molti newyorkesi di tutte le età (“Sono una ragazza degli anni Sessanta e manifesto contro il disastro che è diventata la nostra democrazia”, spiegava una newyorkese di 63 anni, Susan Enoch) hanno urlato slogan e innalzato cartelli con le parole d’ordine della rivolta contro il capitalismo rapace di Wall Street e i limiti della democrazia americana. “Cosa c’è nei vostri portafogli?”, “Noi siamo il 99%”. “Dov’è il mio bailout?”, “Salva la nostra Repubblica!”, “Eguaglianza. Democrazia. Rivoluzione”.
Molti ragazzi portavano cartelli con cifre a molti zeri: le migliaia di dollari di debito con cui quasi tutti gli studenti americani escono dal college. Canti, danze, marce improvvisate sono andati avanti per ore (a New York City non sono necessari permessi per organizzare sit-in e marce). Con il buio ormai calato sulla città, si udiva nel parco il suono di tamburi e si respirava un forte odore di incenso bruciato tra i ‘saccopelisti’, pronti a passare un’altra notte per strada.
“Occupy Wall Street” quindi cresce. Il movimento si è dotato di un organo di stampa, l'”Occupy Wall Street Journal”. Oltre a New York, manifestazioni contro “l’avidita delle corporations” si sono svolte a Boston, Chicago, Los Angeles e in decine di college grandi e piccoli d’America: Albany, Buffalo, Binghamton, Ann Arbour. Ce ne sarà una oggi a Washington, che prenderà di mira K Street e le potentissime società di lobbying.
La forza del movimento è testimoniata dalle parole di Stuart Appelbaum, leader sindacale newyorkese, che alcuni giorni fa si chiedeva: “Ma questi sono un branco di hippies o degli agitatori?”, e che ieri era a manifestare con i ragazzi. La forza del movimento è testimoniata da inattesi attestati di simpatia (“Non li si può biasimare”, ha detto il chairman della Fed, Ben Bernanke), ma soprattutto dal tentativo ormai esplicito dei democratici di mettere il cappello sul movimento. Importanti esponenti della sinistra del partito hanno dato il loro appoggio all’occupazione: Peter Welch, Louise Slaughter, Keith Ellison, Raul Grijalva.
Nelle prossime ore una serie di seminari e di teach-in si svolgeranno a Zuccotti Park e nelle aree immediatamente vicine. “Un modo per concretizzare le nostre proposte”, ci dice l’organizzatore di un incontro su come azzerare il debito dei laureati. In questo momento una delle preoccupazioni più forti, e delle ragioni di critica, è proprio la presunta natura di pura protesta di “Occupy Wall Street”, il rilancio di slogan nobili ma vuoti, che difficilmente potranno cambiare qualcosa. “Non abbiamo ancora richieste. Stiamo costruendo un processo per formulare richieste”, ha spiegato Drew Hornbein, uno dei ragazzi che da 19 giorni occupano Lower Manhattan, riconoscendo implicitamente la difficoltà di elaborare un vero programma di riforme.
C’è comunque, dentro e fuori il movimento, un’altra paura, o attesa. Che la rivolta venga “addomesticata”, che diventi uno strumento in mano ai democratici, una sorta di “ala sinistra” della campagna presidenziale di Barack Obama. Ai più attenti tra gli osservatori non è sfuggito l’appoggio caloroso che ha dato alla protesta Van Jones, ex-collaboratore di Obama sulle questioni ambientali, oggi animatore del gruppo “Rebuild the Dream”. Jones sta girando i college d’America spiegando agli studenti il modello che ha fatto il successo del Tea Party: migliaia di gruppi minuscoli, diffusi sul territorio, senza un leader nazionale, tenuti insieme da una sola etichetta. “Tea Party Movement”, appunto.
“Occupy Wall Street” potrebbe allora diventare, nei disegni della Casa Bianca e di molti democratici, un Tea Party liberal e progressista. Si tratterebbe di un ruolo più limitato, di un obiettivo più circoscritto, rispetto al sogno di dare uno scossone all’America.