Il giorno della morte di Steve Jobs abbiamo assistito a un lutto inusuale per un personaggio simile. Gente affranta davanti a un iPad, fiori buttati all’entrata dell’Apple Store di New York, discorsi di personalità che ricordavano commossi l’uomo che ha reso migliore la nostra vita, l’innovatore che ci ha dato speranza nel futuro. Fino all’altro ieri, nel nostro immaginario collettivo una definizione simile sarebbe stata buona per scienziati che hanno liberato l’umanità da mali incurabili come Louis Pasteur e Albert Sabin, o altri uomini pii come Mahatma Ghandi o Martin Luther King. Oggi invece santifichiamo un venditore di computer. Un uomo che non solo non ci ha liberati da nessun bisogno ma ce ne ha creati altri, rendendoci di fatto prigionieri dei suoi prodotti.

Steve Jobs, nella sua ascesa, caduta e resurrezione, fino alla sua prematura morte, incarna alla perfezione un modello di uomo, di economia e di società che è al tramonto. Per decenni abbiamo assistito al successo economico degli Usa, ammirando il loro prodigioso cocktail di competitività e opportunità che faceva sì che laggiù tutti potessero diventare Steve Jobs. Oggi sappiamo che uno Steve Jobs costa all’umanità milioni di persone ridotte alla fame per il saccheggio delle loro terre da un’economia famelica che produce per distruggere. L’umanità oggi sa che la crescita economica basata sulla spirale di consumo e produzione non è più sostenibile. Il consumismo come lo abbiamo conosciuto finora è un vicolo cieco. Il progresso tecnologico che ci porta a buttare il nostro Iphone 4 per acquistare l’Iphone 5 non è più progresso ma precipizio. E chi sostiene che l’innovazione tecnologica sia una via per garantirci sempre nuova crescita con meno spreco di risorse ci sta ingannando. Viviamo un momento di grande schizofrenia, che ci porta da un lato a vietare le lampadine da 60 watt e dall’altro a accenderne miliardi da 40 che non servono a nulla, da un lato a promuovere biciclette e piste ciclabili e dall’altro a spedire frutta in aereo da un emisfero all’altro per vendere uva là dove è primavera e ciliege là dove è autunno.

L’innovazione tecnologica in sé non ci porta a nessun risparmio di risorse. Il computer non ci ha fatto risparmiare carta. Serve un cambiamento profondo di tutto il nostro modo di vivere, che verrà con la necessità perché la regola non è mai stata una bussola per l’uomo. Mentre sulle prime pagine di tutti i giornali ieri si celebrava Steve Jobs e la sua Apple, nelle pagine interne di alcuni si celebrava l’anniversario della città libera di Christiania, che da cinquant’anni in Danimarca conduce un esperimento di autonomia economica, e si ricordavano le teorie di Leopold Kohr con i sui moniti contro il gigantismo economico.

L’etica della nostra economia è il consumo. Sono cose risapute, ma le dimentichiamo. Comprare è un gesto civico, un atto di responsabilità. Riparare, riciclare, recuperare è da vigliacchi: una pugnalata alla schiena alla società. La prima cosa che fecero gli americani dopo gli attentati del 11 settembre 2001 fu di andare in massa nei centri commerciali. Fu quello il loro gesto patriottico: dare fiducia all’economia comprando. Il progresso per noi è inventare nuovo consumo che non migliora la nostra vita ma la arricchisce di bisogni.

Da oggi in poi non potrà più essere così. Il modello americano del tutti contro tutti, dell’individualismo competitivo come metodo di successo e ricchezza, del saccheggio di risorse e della trasformazione del cittadino in consumatore ormai mostra le corde e i segni sono evidenti. Forse era alla tomba di questo modello che tanta gente portava i fiori davanti all’Apple Store il giorno della morte di Steve Jobs.

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