Il summit di Toronto del 2009 si è concluso con un programma che annunciava al contempo rilancio e austerità. I risultati catastrofici di questa politica si possono vedere sulla Grecia, che non è altro che l’anello debole di una catena che collega tutti gli Stati (il Portogallo, la Spagna e l’Italia prima del resto dell’Europa, e poi del mondo). Denunciare la doppia impostura di questo programma costituisce una sfida per i partigiani della decrescita: rigettare il rigore o l’austerità è una posizione per la quale si possono almeno trovare degli alleati (anche se molto minoritari) tanto fra gli economisti che fra i politici. Ma nel nostro contesto di recessione, rifiutare la ripresa della crescita produttivista per uscire dalla religione della crescita, è una posizione ammessa da alcuni ecologisti nel lungo termine, ma totalmente dimenticata nel breve. Ciononostante il progetto di costruzione di una società dell’abbondanza frugale o della prosperità senza crescita, sostenuto dalla decrescita, è la sola possibilità per uscire dall’attuale impasse. Alcuni intellettuali, come Joseph Stiglitz, raccomandano le vecchie ricette keynesiane del rilancio dei consumi e degli investimenti per far ripartire la crescita. Questa terapia non è auspicabile. Non è auspicabile perché il pianeta non può più sopportarlo, non è possibile forse perché, per l’esaurimento delle risorse naturali (considerate in senso largo) già dopo gli anni Settanta, i costi della crescita (quando c’è stata) sono superiori ai suoi benefici. I guadagni di produttività scontabili sono nulli o quasi nulli. Si dovrebbero ancora privatizzare e mercificare le ultime riserve di vita sociale per prolungare solo di qualche anno l’illusione della crescita. Inoltre questo programma social-democratico, che rappresenta gli avanzi dei partiti dell’opposizione, non è credibile in primis perché questi stessi partiti non sono in grado di mettere in discussione il giogo di ferro del contesto neo-liberale che loro stessi hanno contribuito a costruire nel corso degli ultimi trent’anni e che presuppone l’assoluta sottomissione ai dogmi monetaristi. L’esempio della Grecia è assai eloquente. Un popolo vota massicciamente per un partito socialista il cui programma era classicamente social-democratico e, sottomesso alla pressione dei mercati finanziari, si vede imporre una politica di austerità neo-liberale da questo stesso partito che obbedisce alle ingiunzioni congiunte della troika (la commissione europea di Bruxelles, la Bce e il Fondo monetario internazionale).
In queste condizioni, la ricerca della piena occupazione per rimediare alla miseria di una parte della popolazione dovrebbe essere fatta attraverso una rilocalizzazione sistematica delle attività utili, una riconversione progressiva delle attività parassitarie come la pubblicità o nocive come il nucleare e gli armamenti e una riduzione programmata e significativa dell’orario di lavoro. Per il resto noi raccomanderemmo il ricorso all’emissione di cartamoneta e quindi a un’inflazione controllata (diciamo più o meno il 5 per cento all’anno).
Naturalmente, questo bel programma è più facile da enunciare che da realizzare. Ma con i rimedi della troika «il sangue, le lacrime e il sudore», la famosa formula di Winston Churchill, ci sono già, solamente senza la speranza di vittoria. Il progetto della decrescita non pretende di fare economia di questo sangue, di queste lacrime e di questo sudore, ma almeno apre la porta della speranza. In fondo, questo corrisponde a quanto proponeva Enrico Berlinguer già nel 1977 (oggi in La via dell’austerità, Edizioni dell’Asino, 2010, pp. 25-26), purtroppo senza essere ascoltato, sotto il nome di austerità, che si deve però intendere nel senso della nostra abbondanza frugale: «Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenato, del consumismo più dissennato».
Sono gli stessi concetti che Latouche espone con Didier Harpagès in Il tempo della decrescita, uno dei libri con cui Elèuthera festeggia i suoi venticinque anni di attività con 220 titoli pubblicati. Nata nel 1986 dalle ceneri delle Edizioni Antistato, Elèuthera si è posta sempre un compito arduo: coniugare il pensiero anarchico «classico» con le acquisizioni più avanzate (in senso libertario e anarchico) della sociologia, dell’epistemologia, dell’urbanistica, della filosofia, dell’arte…
Un progetto culturale di grande impegno che Rossella Di Leo e Amedeo Bertolo hanno realizzato con poche risorse finanziarie, ma con un’inesauribile dose di entusiasmo.
Casa editrice piccola, certo, ma che ha nel suo catalogo nomi che hanno segnato e segnano i percorsi culturali della società contemporanea. Così accanto a La rivoluzione democratica di Cornelius Castoriadis troviamo Nonluoghi di Marc Augé e Mi rivolto dunque siamo di Albert Camus. E poi L’ecologia della libertà di Murray Bookchin con Vivere senza padroni di Stefano Boni. Mentre andare Oltre il capitalismo di Michael Albert si fronteggia con La libertà degli uguali di Michail Bakunin. E la Patagonia rebelde di Osvaldo Bayer fa risplendere La scintilla zapatista di Jérôme Baschet: entrambe «figlie» di Spagna 1936: l’utopia e la storia di Pino Cacucci e Claudio Venza. Così Né dio né genoma di Jean-Jacques Kupiec e Pierre Sonigo (con prefazione di Giulio Giorello) non è forse nel filone di Scienza e anarchia di Pëtr Kropotkin?
E come dimenticare in questo 2011 che dieci anni fa poco prima dell’attacco alle Torri gemelle l’unico libro nelle vetrine delle librerie con l’immagine di Osama bin Laden era Una guerra empia di John Cooley?
Buon compleanno Elèuthera.
Nella foto: Serge Latouche ad Alghero