Steven Paul Jobs è diventato una delle maggiori icone pop della nostra epoca. Cioè un personaggio amato in misura del tutto anomala per ciò che è stato, semplicemente un imprenditore.
Sarebbe però un errore considerare la risonanza e l’emozione globale provocate dalla sua morte come se si trattasse della storia di un divo hollywoodianoo di una rock star, come se la sua parabola appartenesse a un mondo lontano, esotico, addirittura fiabesco, fatto solo di intuizioni geniali, successi imprevedibili, ricchezze inusitate. Come se fosse un romanzo avulso dalla concreta e dura storia quotidiana di cui un giornale come Il Fatto normalmente si occupa.
Tra i patrimoni che Jobs lascia al mondo occidentale c’è anche l’occasione per capire qualcosa in più sul capitalismo in cui viviamo, sul ruolo degli imprenditori, sulla crisi radicale di un sistema in cui l’iPad si diffonde alla stessa velocità della disoccupazione di massa. Come suol dirsi, toccherà agli storici il giudizio compiuto su Jobs. Ma fin d’ora bisogna tenere presente che stiamo dicendo addio a un imprenditore che ha segnato la storia dell’economia mondiale degli ultimi trent’anni facendo solo il suo mestiere: ha cercato nuovi mercati e nuovi prodotti, ha fatto crescere la sua azienda.
La storia di Jobs ci insegna molto, per contrasto,anche sull’economia italiana. I precari, i disoccupati e i futuri disoccupati devono ricordare non solo ciò che ha fatto il ragazzo della Silicon Valley, ma soprattutto quello che non ha mai fatto. Non ha mai comprato giornali, non ha mai scalato banche, non ha mai usato i soldi della Apple per entrare in qualche salotto buono, non ha mai partecipato a patti di sindacato e sistemi di potere finanziario, non ha mai chiesto protezione a uomini politici, non ha mai dato la caccia al denaro pubblico, non ha mai trascurato la sua azienda per partecipare a convegni dove dal palco ci si propone come salvatori della patria e nel retropalco si contrattano patti indicibili.
Il Fatto Quotidiano, 7 ottobre 2011