“In Libia gli ebrei c’erano 2200 anni fa. Noi siamo più libici dei libici di oggi”. Shalom Tesciuba,assistito da Gino Mantin, guida una comunità di quasi 6.000 persone, raccolte intorno alla sinagoga di via Padova, a Roma. Sono tutti accomunati dallo stesso destino: cacciati da Tripoli nel 1967, ai tempi della guerra dei 6 giorni, prima ancora dell’arrivo dei Gheddafi. Non si stupiscono più di tanto, adesso che la stampa – anche quella internazionale – torna a parlare della loro presenza nella Libia del dopo-Gheddafi.
Proprio uno di loro, David Gerbi, di professione psicologo, nato a Tripoli, ma vissuto a Roma quasi tutta lavita, si è messo in testa di riaprire la più grande delle 44 sinagoghe tripoline, tutte abbandonate dopo la cacciata.
Per ragioni anagrafiche Tesciuba e Mantin ricordano Tripoli benissimo, dato che l’hanno lasciata quando avevano più o meno 30 anni. “Dopo la guerra mondiale – racconta Shalom – eravamo 42.000, di cui 38.000 solo nella capitale”. Un primo massacro di 220 ebrei nel ‘45 fa capire che il clima attorno a loro non è favorevole. “Alla nascita di Israele moltissimi decidono di lasciare il Paese. Con una nave francese, che si chiamava Tabur, sono partite 1.800 persone. Erano tutti tra i 18 e i 30 anni, nessuno sposato, pronti a rifarsi una vita altrove”. Anche Shalom era in lista. “Ma avevo solo 13 anni. Troppo giovane per partire, non mi hanno voluto”, sorride.
Sul ’67, Tesciuba e Mantin intrecciano i racconti: “Il 5 giugno scoppia il conflitto tra Egitto e Siria da un lato e Israele dall’altro. Cominciano gli atti di violenza, i saccheggi. Due famiglie intere vengono massacrate nelle loro case. Un giovane,Vito Mimun, viene ucciso per strada”. Le violenze continuano, la polizia non fa molto per proteggere gli ebrei, anzi. “Le autorità ci avvertono che siamo in pericolo, facendoci capire che forse è meglio cambiare aria. Poi però ci costringono a lasciare il Paese: ci mettono in tasca 20 sterline libiche (30 euro di oggi) e arrivederci”.
È qui però che da quell’episodio remotola storia fa un salto al presente. L’americano Wall Street Journal, il britannico Guardian, oltre che Il Corriere della Sera in Italia, hanno dato la notizia che sta per essere riaperta, a Tripoli, la sinagoga di Dar Bishi a opera di Gerbi. Che ne pensano i tripolini di Roma? “I contatti con le autorità libiche non sono qualcosa che ha creato lui”, ci tiene a precisare Mantin. “Nel 2004 Moussa Kussa (capo dei servizi segreti di Gheddafi, ndr) mi chiama per proporre un incontro a Tripoli. La cosa va in porto, siamo ricevuti con tutti gli onori”. La delegazione “romana” sfiora perfino l’incontro col rais,non fosse che il venerdì dopo sarebbe cominciato il Ramadan “la cui data di inizio è mobile, tanto da far saltare l’evento previsto”.
Insomma, il rais seconda maniera, quello che si vuole mostrare amico dell’Occidente e vuol far dimenticare il sostegno decennale al terrorismo internazionale, ha tutta l’intenzione di far pace con gli ebrei di Libia. L’allora ministro degli Esteri Albdul Shelgem chiede loro: voi ebrei siete i veri libici, perché siete scappati? E perché non tornate qui adesso? “Evidentemente era troppo giovane per sapere che non ce ne siamo andati di nostra iniziativa”, scuote la testa Tesciuba, sconsolato. “I miei figli nel ’67 erano piccoli. Loro a Tripoli ci sono solo nati, della Libia che ne sanno?”.
Per questo alla comunitàdi via Padova il progetto di Gerbi non piace più di tanto. Sui lavori di restauro della sinagoga sarebbero pure d’accordo. Ma poi a pregare chi ci va, se gli ebrei cacciati allora, di tornare a vivere a Tripoli non ne vogliono sapere?
Il Fatto Quotidiano, 7 ottobre 2011