Nelle pagine dei giornali di un mese fa ricorreva il racconto delle celebrazioni dell’anniversario dell’11 settembre: le testimonianze dei sopravvissuti, i ricordi dei politici, accompagnati da immagini di oggetti trovati a Ground Zero, e del Wtc fissato sul negativo della pellicola nel momento in cui un aereo attraversava la seconda torre. Infine, a ricordare i diversi attacchi, mappe stilizzate che recavano i tre punti in cui si erano abbattuti gli aerei: New York, poi il Pentagono e infine un bosco in Pennsylvania.
Qui, a pochi chilometri dalla cittadina di Shanksville, si trova un memoriale provvisorio edificato sul luogo in cui il volo United Airlines 93 si è abbattuto al suolo, tra un campo e il bosco.
Le vicende relative alla sua forma finale sono meno note, ma simili a quelle già poste dal 9/11 Memorial di New York, a dimostrazione del fatto che l’arte assume più facilmente una dimensione pubblica – ovvero viene discussa – quando è legata alla rappresentazione della storia.
La relazione che i monumenti intrecciano con la memoria e il luogo rappresenta infatti un campo d’analisi efficace per ripensare la nozione di luogo pubblico oggi. Quale è il paesaggio nel quale si inscrive il corpo collettivo? Come si produce oggi la memoria? Come restituire la memoria in una forma dialettica che non riproponga l’opposizione binaria io/altro, ma che sia capace di assorbire in sé le categorie oppositive?
Il memoriale, che ha avuto una funzione centrale nelle costruzione delle narrazioni identitarie nazionali per tutto il XX secolo, è quasi sempre inscindibile dal paesaggio in cui è inscritto e ribadisce un’identità tra luogo e memoria. Non è un caso forse che la sua forma entra in crisi dopo la seconda guerra mondiale, contestualmente a una più generale problematicità della rappresentazione.
Da quel momento storico in poi i monumenti alla memoria manifestano nella loro forma un elemento di discontinuità con il passato: non sono più sculture centripete, ma diffuse. Esempi in tal senso sono il Monumento ai martiri delle Fosse Ardeatine a Roma, il Grande Cretto di Alberto Burri a Gibellina, l’Holocaust Mahnmal di Berlino, sculture che richiedono allo spettatore di percorrerle, di entrarvi dentro, di farne parte. Il Circle of Embrace di Shanksville riprende nella sua forma finale il cenotafio temporaneo predisposto all’indomani dell’11 settembre: un sentiero da percorrere, un’area aperta solo ai parenti delle vittime, il bosco come linea di confine, un muro con inscritti i nomi, che reinterpreta la rete sulla quale, provvisoriamente, erano esposti gli oggetti dei quaranta passeggeri trovati nell’area dell’impatto, che ne restituivano il ricordo. E’ un monumento costruito per stazioni, non ha una forma unitaria, e come tutti i memoriali dell’età contemporanea rende manifesta una frattura con l’ordine di cui la scultura classica è espressione: la possibilità cioè di essere al di fuori e al di sopra delle cose e di potervi dare un senso. Questo memoriale si visita attraversandolo, percorrendolo nel tempo e nello spazio, divenendo insomma parte dello stesso paesaggio che lo ospita.
Questi contro-monumenti processuali, diffusi, centrifughi, nel sottrarsi alla forma unitaria del memoriale, ci restituiscono comunque un desiderio di ricordare, spingendo però chi li vista a non essere solo spettatori, ma agenti attivi nella produzione del ricordo.