L'organizzazione islamica era rimasta in ombra mentre l'Anp chiedeva all'Onu il riconoscimento dello Stato. Ma ora molte famiglie a Gaza e in Cisgiordania, e non solo, potranno riabbracciare i loro cari grazie all'accordo appena siglato
Khaled Meshaal ha rubato la scena a Mahmoud Abbas. Sul fronte palestinese, il primo risultato dell’accordo raggiunto tra Israele e Hamas sullo scambio di prigionieri è proprio il suo significato d’immagine. Per mesi, il movimento islamista palestinese era rimasto oscurato dalla battaglia condotta – soprattutto dall’Anp di Ramallah – per ottenere il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte dell’Onu. Hamas era rimasta alla finestra a guardare, senza attaccare troppo l’Anp, perché proprio con lui Khaled Meshaal aveva condiviso un altro palcoscenico: l’intesa lo scorso 4 maggio al Cairo tra tutte le fazioni, ma soprattutto tra Fatah e Hamas, che formalmente aveva posto fine alla divisione che ha spaccato la casa palestinese dal 2007. Il disagio degli islamisti sulla richiesta all’Onu, però, era evidente, perché sostenere Abbas su di uno Stato di Palestina sui confini del 1967 avrebbe significato implicitamente, per Hamas, riconoscere Israele.
Schiacciata dalla grande esposizione mediatica della battaglia all’Onu, Hamas incassa ora, con l’accordo su Gilad Shalit, il caporale israeliano prigioniero dal 2006, un successo che mette in ombra proprio Abu Mazen. Perché l’accordo per il rilascio di 1027 palestinesi detenuti nelle carceri israeliane è un risultato che tocca tutte le famiglie, non solo a Gaza e non solo in Cisgiordania. E’ un risultato “nazionale”, ha detto lo stesso Meshaal, da Damasco, confermando che per il capo del bureau politico di Hamas – così come per Abu Mazen – la posta in gioco è quella della leadership nei confronti di tutti i palestinesi.
La lista dei prigionieri, attentamente redatta negli scorsi anni da Hamas, è un esempio lampante di quale sia l’obiettivo politico islamista: riguadagnare il consenso allargato, fuori dai confini della militanza di partito. La questione dei prigionieri, per i palestinesi, è questione nazionale, e dunque nella lista sono stati messi tutti. Esponenti di Hamas, di Fatah, i laici del Fronte Popolare, quelli della Jihad Islamica. I detenuti di Gaza e della Cisgiordania, ma anche quelli di Gerusalemme est e i palestinesi di Israele. E proprio su quelli di Gerusalemme est e di Israele, negli scorsi mesi e negli scorsi anni, si era arenata la trattativa tra Hamas e il governo di Netanyahu. Per Hamas, era determinante che tutti i palestinesi – compresi quelli col passaporto israeliano, della Palestina storica – fossero nel negoziato. Israele, invece, aveva a un certo punto rifiutato il loro inserimento.
Nell’accordo appena firmato, però, c’è un punto che gioca contro l’immagine ecumenica di Hamas. Ed è la mancata inclusione di Marwan Barghouthi e di Ahmed al Saadat, rispettivamente le due figure più importanti per Fatah e per il Fronte Popolare. Non ci sono loro, così come non ci saranno – sembra – anche alcuni pezzi da novanta dello stesso movimento islamista. Barghouthi e Saadat sono stati sacrificati sull’altare di un accordo che premia la debolezza di Netanyahu e quella di Meshaal? Barghouthi e Saadat, insomma, valgono un’intesa che salva Netanyahu dal crescente isolamento internazionale sulla questione delle colonie, e Meshaal dall’indebolimento a Damasco, mentre Bashar el Assad reprime violentemente la rivoluzione siriana? Sì. E assieme a questi elementi importanti, c’è anche la pressione montante del dossier prigionieri, sia per Israele sia per i palestinesi tutti.
I detenuti palestinesi nelle carceri israeliane sono migliaia. Difficile anche quantificarli, perché il loro numero varia molto: nel totale vanno e vengono i lavoratori palestinesi illegali che si fanno qualche settimana di detenzione, così come i ragazzi che lanciano pietre o che vengono arrestati per una parola di troppo a un soldato a un checkpoint. Dovrebbero ora essere seimila, ma il loro numero è arrivato sino a diecimila, negli anni recenti. Sono un mondo a parte, dimenticato – sempre – dalla comunità internazionale, se non fosse per il Comitato Internazionale della Croce Rossa, che continua a occuparsene. Sono una ferita aperta, da decenni, nella società palestinese, perché in ogni famiglia c’è almeno un detenuto. Si calcola che dal 1967, 650mila palestinesi siano stati incarcerati da Israele, in quanto potenza occupante.
Nelle scorse due settimane, il dossier si è riaperto, con l’inizio dello sciopero della fame di oltre duecento detenuti, che chiedevano migliori condizioni e soprattutto la fine dell’isolamento simboleggiato – in questo caso – dall’isolamento di Ahmed al Saadat, il capo del Fronte Popolare. Lungi dall’essere confinato nella sola dimensione delle carceri e dei familiari dei detenuti, lo sciopero della fame è divenuto questa volta una campagna mediatica, con i digiuni di solidarietà partiti all’esterno delle prigioni. Un fatto unico, che si nutre anche dell’attivismo sulla Rete e dell’atmosfera cambiata nel mondo arabo, dopo l’inizio delle rivoluzioni. Tanto è vero questo, che per la prima da molto tempo l’autorità che sovrintende agli istituti penitenziari israeliani ha emesso un comunicato per dare dettagli sullo sciopero della fame, e per sottolineare che i detenuti che digiunano sono sotto stretto controllo medico. Quanto la protesta in corso abbia influito nel velocizzare l’accordo sullo scambio dei prigionieri non si sa. Per Hamas, però, il consenso è determinante, e forse – nella strada palestinese – si sarà anche detto che era meglio non sacrificare un accordo per i pezzi grossi, e liberare quanti più detenuti era possibile.
di Paola Caridi