Ci avviciniamo al 15 ottobre, alla manifestazione degli indignati.

Premetto che non amo l’indignazione fine a se stessa. “Indignarsi non basta“, diceva Ingrao. Negli ultimi anni questa teoria ha ricevuto fin troppe controprove scientifiche: noi ci siamo indignati ogni giorno e comunque la crisi finanziaria ci ha mangiato buona parte della speranza.

Detto questo, voglio cercare di capire: cosa sta succedendo? Quali sono le forme della protesta in Italia?  Ci sono proposte politiche ed economiche forti aldilà della denuncia del fallimento del sistema economico-politico esistente?

Il 75% degli italiani contesta il sistema politico attuale, il governo Berlusconi in particolare. Ma è altrettanto evidente che le azioni di contestazione messe in campo in queste settimane non rappresentano la maggioranza assoluta dei sentimenti del Paese.

Provo a fare un’analisi della comunicazione di questa protesta. In questi giorni la parola d’ordine è: #occupiamobankitalia. Non capisco, e continuo a non capire. Prima di tutto perché abbiamo bisogno di importare formule dagli altri Paesi, provincializzandole.

Era già successo con la parola ‘indignados’, termine utilizzato per indicare una mobilitazione globale e che in realtà riguarda i modi della protesta di un singolo stato del mondo, la Spagna. La Primavera Araba è la Primavera degli indignados? Io dico di no. Così come penso che il livello di complessità della protesta americana sia maggiore di quella spagnola e anche di ciò che si è visto in Italia in questi mesi. Eppure, siamo tutti indignados, al massimo indignati: i manifestanti hanno cavalcato la mcdonaldizzazione che tanto osteggiano.

Se lo scopo era citare #occupywallstreet, l’obiettivo è stato miseramente fallito. La Borsa americana è un simbolo ed è realmente il centro del mondo finanziario; la sua ‘occupazione’ rappresenta l’interruzione di un processo economico rivelatosi incapace di garantire benessere e di tutelare i diritti dei cittadini. L’occupazione ipotetica della Banca  d’Italia, e persino di Piazza Affari (un paragone, nel caso, più sensato) non porterebbe ad alcun risultato.

Mi è stato detto che Bankitalia è stata chiamata in causa perché il suo Governatore, Mario Draghi, ha firmato la lettera agostana della Bce all’Italia. Ma Draghi, da Palazzo Koch, è uscito proprio ieri. E il Governo Berlusconi non ha ancora deciso di chi sarà il suo successore. Occupare Bankitalia, oggi, equivale a occupare un edificio vuoto: un’azione inutile.

La lettera della Bce è espressione di un’istituzione che deve rappresentare gli interessi dell’Europa tutta, e il fatto che Draghi sia italiano non conta assolutamente nulla. Aspettarsi che il prossimo direttore della Bce, essendo nostro connazionale, ci faccia qualche sconto, è una deriva tipicamente italiana che ha molte più responsabilità nella crisi del sistema-Italia rispetto all’invio di quella lettera. In ogni caso, se c’è un edificio da occupare per protestare contro le dottrine imposte dall’Europa all’Italia, è l’Eurotower di Francoforte, da cui è partita la lettera.

Nelle ragioni della contestazione (qui la lettera a Napolitano, qui il documento completo) ci sono molti concetti che trovo assolutamente condivisibili. Il confronto tra il l’1% che ha soldi e potere e il 99% che non ce l’ha è purtroppo realistico ed estremamente suadente e convincente. È del tutto evidente che le ricette economico/finanziarie delle istituzioni europee non hanno risolto i problemi: la Grecia ha ceduto la propria sovranità politica all’Europa dopo aver ricevuto lettere ben più compromettenti di quella ricevuta dal nostro Governo, in cambio riceverà quasi certamente il fallimento.

La soluzione di un problema globale va dunque declinata su scala nazionale. E qui arriviamo al principale corto circuito della comunicazione: i manifestanti la pensano come Draghi, l’Italia deve farcela da sola.

Se la soluzione va cercata nel nostro territorio, la risposta al problema è dunque di natura strettamente politica. Lo ha capito Zapatero in Spagna, forse su pressione degli indignados, più probabilmente per senso dello Stato. La via italiana alla crisi finanziaria, secondo gli indignati italiani, è il non pagamento del debito (dichiarazione esplicita), e dunque il default (dichiarazione a mezza bocca).

Dichiarare di non voler onorare il debito è a mio avviso l’errore politico più grave commesso dai manifestanti: è stato proprio il mancato rispetto di una regola fondamentale della convivenza umana, il rapporto tra ciò che si dà e ciò che si riceve, ciò che si guadagna e ciò che si spende, a portarci dove siamo. La politica ha comprato consenso rinviando all’infinito il taglio degli sprechi, la riduzione dei costi della politica, lo scioglimento dei potentati, la scadenza degli impegni. Dire: “non paghiamo il debito” equivale a dire “noi siamo come chi ci ha ridotto in questo stato”.

Il ‘default pilotato’ è una proposta coraggiosa, che merita perlomeno un confronto. I modelli citati sono ovviamente la virtuosa Islanda e l’altrettanto virtuosa Argentina. In entrambi i casi, è stato il rinnovamento politico a trasformare la crisi in opportunità: un principio che credo sia valido anche oggi e che non richiede il fallimento per essere messo in campo.

Quello che i manifestanti dimenticano di enunciare è che il default, dunque l’uscita dall’Euro, rappresenterebbe la perdita immediata del 50-60% del valore della moneta corrente, secondo una ricerca di Ubs e Citigroup di un mese fa. Ci vorrebbe il doppio del denaro per un piatto di pasta, per uno smartphone, per una vacanza, per una visita medica specializzata. Ci vorrebbe il doppio del denaro anche per far sentire la propria voce su Internet. La democrazia, nel suo complesso, avrebbe un costo insostenibile.

È questo quello che vogliono i manifestanti? È questo che vuole l’Italia?

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