Fra mille stanchezze e tanta ambiguità, anche quest’anno si celebra la settimana della lingua italiana. In conferenze, dibattiti e seminari che si tengono in ogni parte del mondo, volenterosi sostenitori dell’italianità canteranno la bellezza della nostra lingua e la sua irresistibile ascesa come lingua della terza età – mentre da ogni parte crollano i bilanci dell’istruzione, le scuole chiudono e gli istituti di cultura sprofondano nei debiti. Per fortuna che siamo ancora capaci di vivere di rendita e qualcosa riusciamo sempre a vendere a suon di Rinascimento, Dolce Vita, Vespa, Caffè espresso, Bel canto e Cinecittà.
Mentre noi lanciamo le nostre grandi manovre annuali e mostriamo i muscoli dell’italianità indomita, anche la Francia muove le sue cannoniere e apre su internet il sito “Dire, ne pas dire”, dove l’Académie Française offre consigli di grammatica, sostegno lessicale e altri suggerimenti, soprattutto intesi a sventare gli anglicismi che dilagano nella modernità tecnologica. Abbasso l’email, viva il courriel, basta con il software, avanti il logiciel. Da questo pronto soccorso del linguaggio, gli onorevoli membri dell’Académie Française, che godono del titolo di “Immortels”, aiuteranno così i francesi e ributtare a mare la lingua della perfida Albione ovunque tenti lo sbarco. Gaston Pellet, uno dei paladini della lingua di Giovanna d’Arco, afferma che questa non è una campagna contro l’inglese, ma contro l’impoverimento della lingua in generale. Anche l’inglese sta affondando nel Globish, che non è più lingua ma uno smozzicato gergo, impoverito dall’uso di computer, email e sms.
E qui affiora chiaramente l’insensatezza di queste campagne e i presupposti sbagliati da cui partono. Innanzitutto, evviva il Globish, che nella sua semplicità permette una comunicazione seppur rudimentale fra persone che altrimenti non potrebbero parlarsi. Anche nella nostra lingua usiamo registri e livelli diversi a seconda che siamo al bar, in tribunale o all’università. E poi non sarà mai troppo tardi quando ci si renderà conto che divieti, istruzioni per l’uso e altre direttive non servono a nulla contro l’impoverimento della lingua. È altrove che bisogna intervenire. La lingua è solo uno strumento: sono le culture che parlano attraverso di lei. Ed è questa che stiamo perdendo, nell’ignoranza dilagante, nella superficialità che tutto domina, nell’incapacità di pensare, nel chiasso del guardare senza vedere. Per ripristinare la forza della nostra lingua bisogna riabituare la gente alla complessità del ragionamento, alla capacità di astrazione, alla riflessione che formula le idee. Lo strumento principe per far questo è la lettura. Per salvare la lingua serve il libro, il pensiero articolato che obbliga al raccoglimento, che stacca il pensiero dal mondo e lo trattiene fra le parole. Allora poco importerà la lingua che si parla: che sia italiano, francese o inglese sarà una lingua intera.