Domani, in Italia come in molti altri Paesi, si svolgeranno le manifestazioni degli Indignati. Si tratta di un movimento che sta assumendo dimensioni globali e che intende dar voce, come dicono i cartelli issati dai manifestanti a Wall Street, a quel 99% della popolazione che sta pagando una crisi che non ha provocato. È importante che le ragioni di questa protesta non siano inquinate e distorte da atti di violenza che servirebbero soltanto a screditare il movimento, offrendo un’ottima scusa a chi non vuole entrare nel merito dei suoi motivi. Che sono molti e molto seri.
A oltre quattro anni dall’inizio della crisi continuano i salvataggi di banche e assicurazioni con soldi pubblici: l’ultimo caso, di pochi giorni fa, riguarda Dexia e costerà 90 miliardi di euro a Belgio, Francia e Lussemburgo. In compenso si lascia marcire la crisi greca, dopo averla aggravata con il piano di austerity draconiano che ha accompagnato il “salvataggio” del 2010. I bilanci pubblici in Europa sono stati prima appesantiti accollando ad essi il debito privato, e ora si tenta di alleggerirli smantellando i sistemi di welfare e privatizzando a più non posso. Intanto si assiste ad uno spostamento di sovranità dagli Stati a una sorta di terra di nessuno in cui chi detta le regole sono di fatto i governi degli Stati “forti” dell’Unione o addirittura la Banca Centrale Europea. Quest’ultima, non contenta di far male il proprio lavoro (vedi l’aumento dei tassi di interesse a luglio), ha pensato bene di cominciare a dettare agli Stati le politiche economiche e sociali: richiedendo all’Italia – con una lettera che avrebbe dovuto rimanere segreta “per non turbare i mercati” – di effettuare la “privatizzazione su larga scala” dei servizi pubblici, ridurre gli stipendi pubblici e rendere più facili i licenziamenti.
Infine, a turbare non i mercati ma gli Indignati, c’è il governo peggiore di sempre: che prima ha negato la crisi, poi ha accettato senza fiatare una modifica del patto di stabilità punitiva per l’Italia e infine ha costruito una manovra economica (anzi: quattro) da manuale quanto ad iniquità e inutilità.
“Noi il debito non lo paghiamo” è tra gli slogan di questa giornata in Italia. È condivisibile? Dipende. Se significa “ripudio del debito” è difficile essere d’accordo. Per almeno tre motivi:
1) Perché il default sul debito italiano sarebbe pagato in parte non piccola proprio dai lavoratori e pensionati che da decenni sono abituati a considerare i titoli di Stato come il porto più sicuro per i propri (pochi) risparmi. Secondo stime di Morgan Stanley del luglio scorso, gli investitori privati italiani, con un 14% del debito totale, sono in assoluto tra i maggiori detentori del debito pubblico, secondi soltanto alle banche italiane (15%) e ai gruppi assicurativi esteri e fondi comuni europei (14,6%). A quella percentuale vanno aggiunti anche i fondi di investimento italiani (5,5%), i fondi italiani gestiti all’estero (6,1%) e una parte del debito in mano a compagnie assicurative italiane (11,4%): in definitiva, direttamente (acquistando titoli di Stato) o indirettamente (attraverso fondi e polizze che acquistano titoli di Stato), i cittadini italiani possiedono tra il 25% e il 30% dell’intero debito pubblico. Forse anche di più, viste le vendite massicce effettuate da banche e fondi esteri durante l’estate. Per aggirare questo problema, qualcuno propone un “default selettivo”. Il “default selettivo” però si ha quando non si ripaga (a nessuno) uno specifico titolo di Stato. Non si può, invece, in relazione a uno stesso titolo di Stato, scegliere i creditori da privilegiare rispetto ad altri: non solo è una violazione contrattuale, ma è impossibile sul piano pratico.
2) Dopo un default i mercati internazionali dei capitali sarebbero indisponibili a finanziare l’Italia per diversi anni. Questo comporterebbe la necessità di un forte avanzo primario, e quindi di politiche di bilancio ancora più rigide di quelle oggi richieste dai più oltranzisti pasdaran del pareggio di bilancio.
3) Un default andrebbe di pari passo con l’uscita dall’euro e una forte svalutazione. Tra gli effetti di quest’ultima ci sarebbe una notevole deflazione salariale causata dal crollo del potere d’acquisto dei lavoratori rispetto ai prodotti finiti importati e a quelli al cui prezzo contribuiscono beni intermedi importati (tra cui il petrolio e il gas). Alcuni economisti di destra consigliano le svalutazioni proprio perché rappresentano un modo per ridurre i salari tanto efficace quanto indiretto (e quindi tale da suscitare minori proteste di tagli diretti degli stipendi).
Per questi motivi il default, anche per Argentina e Islanda, non è stato una scelta politica, ma una drammatica necessità.
C’è però un altro modo per leggere lo slogan “Noi il debito non lo paghiamo”: mettendo l’accento sul “noi”. Questa è invece una rivendicazione sacrosanta, soprattutto nei confronti di una finanziaria che – tra colpi di scure alla finanza pubblica, abolizione di gran parte delle detrazioni fiscali e aumento delle imposte indirette – grava in gran parte su chi guadagna di meno e paga le tasse, mentre è in arrivo l’ennesimo condono-regalo per gli evasori. È giusto esigere che la crisi la paghi chi evade 120 miliardi di euro all’anno e chi detiene grandi patrimoni, e che i risparmi, anziché sugli asili nido e sulle scuole, si facciano sulle spese militari (26 miliardi) e sullo sperpero di denaro pubblico per le imprese private (30 miliardi all’anno). Avanzare oggi questa rivendicazione equivale a introdurre nelle dinamiche di questa crisi un vincolo nuovo: l’indisponibilità di chi sinora ne ha pagato il prezzo a continuare così. È l’unico vincolo in grado di imporre una svolta nella gestione di questa crisi.
Il Fatto Quotidiano, 14 ottobre 2011