Non succede spesso, ma qualche volta le parole del diritto hanno il suono della comprensione. Con “istituti di clemenza” si indicano l’amnistia, la prescrizione e la grazia. La prima è una parola di origine greca e significa oblio, divieto di ricordare, oppure – allo specchio – obbligo di dimenticare.
La seconda, la prescrizione, non interviene a cose fatte, ma anticipa. È un perdono prestabilito, un diritto ‘scritto prima’. Serve, almeno in teoria, a rendere più stabili i rapporti giuridici, individuando un tempo entro il quale è possibile esigere una sanzione.
La grazia è una vecchia appendice di quando il potere era regale (e infatti in Italia è esercitata dal Capo di Stato). Shakespeare, nel Mercante di Venezia, fa dire a Portia travestita da avvocato, non proprio uno dei nostri azzeccarbugli, come la grazia si addica al monarca “più della corona”. Diversamente dalle amnistie, non si indirizza a un gruppo ma a singoli individui. E a differenza della prescrizione, non interviene prima ma dopo, a cose fatte.
I giornali di avantieri raccontavano la storia di Calogero Crapanzano, maestro elementare in pensione, che nel 2007 ha ucciso il figlio. Angelo era autistico: per 27 anni i suoi genitori hanno vissuto la solitudine del dolore, tra accessi di ira – il ragazzo picchiava la madre – e di disperazione. Un giorno Calogero portò il figlio in campagna e lo strangolò. Poi caricò il corpo in auto e andò a costituirsi.
Nella sentenza di condanna, il giudice scrive: “L’assassinio non è tollerabile né scusabile, ma per quasi trent’anni Crapanzano ha dedicato la propria vita interamente al figlio disabile. In che modo si tutela l’integrità delle famiglie che da questo male vengono travolte? La risposta, triste e disarmante è purtroppo quella che implica l’assenza: nulla”.
Il presidente della Repubblica ha concesso la grazia a Crapanzano che l’aveva invocata: per accedere ai benefici del provvedimento occorre che il candidato ne faccia richiesta. È un atto di riconoscimento del potere: per questa ragione destò tanto clamore la scelta di Adriano Sofri di non avanzare la richiesta di grazia (ne seguì persino un dibattito, promosso da un manipolo di sostenitori, per sondare la possibilità di avanzare comunque la richiesta ‘a suo nome’).
Davanti alla storia della famiglia di Angelo le opinioni del cronista – qualche volta anche quelle del giurista – restano in bilico su un’immaginaria frontiera, con un piede sul terreno del diritto e un altro su quello di un principio di umanità. Eppure addirittura Montesquieu avvertiva, nello Spirito delle leggi, che la clemenza è un tratto tipico delle monarchie (mentre nelle Repubbliche appare meno necessaria).
E ancora, in un caso relativo alla diffamazione di due giornalisti condannati e in seguito graziati, per un reato a mezzo stampa in Romania, la Corte europea dei diritti umani ha sancito che le misure di grazia non possono rappresentare una compensazione per condanne ingiuste (come potrebbe sembrare in questo caso).
Ma grazia è l’opposto di disgrazia: solo se cieco, il diritto, e con lui gli uomini, non vedono la vita di Angelo e dei suoi genitori attraverso questa simmetria sofferente.
Il Fatto Quotidiano, 16 ottobre 2011