Enoch (Henry Hopper, figlio di Dennis) ha perso i genitori in un incidente d’auto e vive con la zia. Come “passatempo” partecipa a funerali di sconosciuti. A una veglia incontra Annabel (la splendida Mia Wasikowska, che sembra la figlia di Mia Farrow), che gli dice di essere volontaria in un ospedale per malati terminali. Annabel in realtà è una paziente, ha il cancro e sta per morire. Ma i due ragazzini, uniti da fantasmi luttuosi, si innamorano. Pur sapendo che il loro sentimento avrà una fine inevitabile.
Gus Van Sant è un genio (ribelle), ma del tipo che può far quello che vuole. Un genio di talento: rarità tra le rarità. Van Sant può girare Elephant e Gerry, destinati a essere adorati dai cinefili più che dal grande pubblico, girare ottimi film classici e lisci come Milk o realizzare un film personalissimo, piccolo e apparentemente semplice come Restless (tradotto in Italia con L’amore che resta… e va beh).
Film sull’amore, in effetti. Ma sull’amore come irrequietezza, come processo di cambiamento, come elemento dinamico. Mettendo in scena una situazione “limite”, quella di due adolescenti segnati dall’ombra della morte e consapevoli che il sentimento non può che essere a termine, Van Sant racconta con la delicatezza di una piuma la ferocia dell’innamoramento. E, proprio perché lieve, Restless fa ancora più male.
Annabel è lucida: vive con passione i suoi ultimi mesi e cerca di trovare (nel suo interesse per Darwin e l’evoluzionismo) spiegazioni razionali per ciò che non si può sensatamente giustificare. Enoch è confuso, invece, e arrabbiato: ancora non ha individuato un modo per elaborare la perdita della sua famiglia. Attraverso Annabel, ci riuscirà.
Van Sant estremizza le dinamiche di ogni amore. Che è una domanda in cerca di risposta e un superamento di sé attraverso l’altro, incarnazione delle interrogazioni che ci spingono a riconoscerci in lui. Enoch “cannibalizza” Annabel: e non è forse sempre così? Raramente lo ammettiamo mentre Annabel glielo chiede apertamente in una bella scena (in cui i due “fingono” il momento della sua morte): è lei a spronarlo a non fuggire, ad andare fino in fondo, a non aver paura di divenire attraverso di lei.
Il secondo movimento feroce dell’amore, messo in luce da Van Sant, è la consapevolezza della fine. Tutti gli amanti lo sanno, in ragione. Ma ne tacciono. In questo caso, il sentimento non può tirarsi indietro di fronte alla morte. I due protagonisti sono due equilibristi che giocano (riuscita la scena in cui ironizzano all’obitorio) con i massimi sistemi dell’esistenza.
Van Sant sceglie una narrazione lineare e asciutta ma densa di romanticismo, soprattutto nei dialoghi che non hanno paura a essere esplicitamente intensi. La macchina da presa sta addosso ai protagonisti con un pudore esemplare: i primi piani sono sfiorati con cura e i corpi sempre ripresi con grazia. Certi intermezzi, tipici dei film che raccontano love story – montaggio, con sottofondo musicale, degli episodi più felici della coppia – sembrano ovvi, ma in realtà servono a “dilatare” il breve tempo della relazione tra Enoch e Annabel dotandolo di una memoria superiore. Di uno spazio ulteriore, che è quello in cui si rielaborano tutte le storie.
Il film, sottotraccia, lascia una forte inquietudine. Perché, al di là del ritratto di due giovani – “genere” in cui Van Sant ormai è maestro assoluto – Restless parla di un universale e delle sue immortali dinamiche. Che non sono rassicuranti, non sono buone, non sono giuste. E prevedono il superamento dell’altro, la crescita – anche egoistica – e l’eroismo di fronte alla fine. L’amore che resta è il sedimento che rimane in vita dopo che l’altro, in ogni modo, se n’è andato. Nessuna illusione però: tutto è triste e crudele. Come ogni cosa molto più grande di noi.