Il movimento è spaccato: da una parte il Tpo, contrario alla violenza, dall'altra gli autonomi di Crash che rivendica la "resistenza popolare" andata in scena a piazza San Giovanni
Ma quell’uno per cento organizzato non era tutto il corteo di Roma, ovviamente. E infatti ecco tra gli interventi al Tpo spuntare anche chi in piazza San Giovanni c’è andato per esprimere la propria rabbia. E lo rivendica pur non appoggiando le posizioni estreme.
“Io in quella piazza c’ero e lo dico di fronte a tutti”. A parlare è Davide, quasi trent’anni, gli ultimi sette passati da precario. “Una vita da inferno tra contratti che scadono e soldi che non ci sono mai”. In mano un casco rosso e nero, alza bene la testa per guardare tutti e poi continua: “E’ stata la polizia a spingerci in piazza, poi è successo quello che è successo. Non che io abbia lanciato pietre. Non vorrei mai avere la Digos alle calcagna. Ma io avevo il casco, avevo i limoni, e mi considero complice di chi le pietre le ha lanciate e di chi ha incendiato il blindato”.
I trecento presenti ascoltano tutti in silenzio. Davide continua: “Ci hanno definito l’uno per cento? No, noi viviamo tutti i giorni nell’inferno della precarietà. Ho provato a fare l’indignato mesi fa in piazza Nettuno ma non ha funzionato, ho provato a parlare ma nessuno ha ascoltato. Ora il tempo delle parole è finito. A San Giovanni non c’è stato teppismo, ma rabbia precaria“.
Poi è arrivato l’applauso anche da chi aveva applaudito interventi contrari. Segno che quelle parole non erano così aliene a chi ascoltava e in piazza ha scelto di evitare la violenza. Altro intervento, altra anomalia rispetto alla posizione di quasi tutti al Tpo. A parlare è Carlo, 42 anni, anche lui precario. “Mentre sfilavo ho visto due ragazzi sfasciare le vetrine. Volevo fermarli, dargli due sberle. Poi sono venuti loro a chiedermi delle sigarette. Ho capito che non si meritavano nemmeno un ceffone”. Poi però anche Carlo è arrivato in piazza San Giovanni. “Di fronte a me un idrante ha centrato col getto d’acqua una donna che spingeva un disabile in carrozzina. Non ci ho visto più, ho preso una transenna e gli ho chiuso la strada come potevo”. Anche qui, applauso.
Segno che era forse difficile tenere a bada quelle tensioni che il movimento nei lunghi mesi di preparazione del corteo nazionale aveva tentato e sperato fino all’ultimo di nascondere sotto il tappeto. Ma tutti, chi più chi meno, sembrano concordi sulla condanna della violenza che ha privato della libertà di manifestare 300mila persone. Il dito è puntato ma nessuno fa nomi e cognomi fino alla fine. “Ognuno è libero di agire in piazza come meglio crede – spiega Domenico Mucignat, storico disobbediente bolognese – ma se è così allora è giusto che le nostre strade si separino”.
di Giovanni Stinco