Non penso affatto che i movimenti debbano né possano sostituire i partiti: i movimenti, intestandosi delle battaglie civili, fanno politica in senso lato mentre i partiti la fanno in senso proprio e istituzionale. I movimenti, però, possono scendere in campo in particolari momenti di crisi dei partiti – è il caso d’oggi – quando, per esempio, questi dimostrino di non rispettare elementari norme etiche selezionando personaggi impresentabili, incapaci o corrotti, forti di discutibili leggi elettorali.

Corretta questa fase, i movimenti dovrebbero tornare a occuparsi ciascuno di ciò che gli è proprio. Mentre l’impegno in un movimento può durare tutta la vita, quello nelle istituzioni, secondo me, dovrebbe comunque essere temporaneo per favorire un opportuno ricambio generazionale ed evitare attaccamenti al potere e alle poltrone, fonte da sempre di corruzione.

I movimenti possono quindi sicuramente contribuire a selezionare e stimolare, soprattutto a livello amministrativo, la classe dirigente. La politica, per fatturato e numero di addetti è diventata una delle principali industrie: molti ci campano e molti di più ci vorrebbero campare pronti a saltare sul carro del vincitore di turno oppure a fiutare nuove tendenze da intestarsi.

Persino concetti sacri come la legalità o l’impegno antimafia vengono usati strumentalmente per fini elettorali e per costruire carriere politiche. Ciò che all’estero provocherebbe civile indignazione, da noi, purtroppo, provoca al massimo invidia e così parassiti, incapaci e corrotti sopravvivono grazie al “concorso esterno” di chi si rassegna a votare sempre il meno peggio. A ciò si aggiunga il marketing politico, la costruzione artificiale del consenso in assenza di confronto e partecipazione e la straordinaria diffusione delle tecnologie digitali. Gli esempi dall’estero (Tunisia, Egitto, Spagna, Usa, ecc.) offrono così nuovi spunti e fioccano, in aria di elezioni, i movimenti, visto che la tendenza è bottom-up, dal basso.

Come riconoscere allora i veri movimenti dal basso da quelli calati dall’alto da politici di professione con l’immancabile supporto di giornali che, invece di raccontare la realtà per com’è, la descrivono per come vorrebbero che fosse, secondo la loro personale e interessata visione del potere?

  1. I veri movimenti non hanno niente a che fare con i politici di professione. Sarebbe una contraddizione: i movimenti nascono normalmente per correggere gli abusi della partitocrazia, non certo per esserne usati.
  2. I movimenti dal basso nascono e crescono parlando innanzitutto dei problemi dei cittadini (qualità della vita urbana, mobilità, ambiente, efficienza dei servizi, decoro urbano, ecc.) e di soluzioni possibili, molto meno di candidature e di candidati sotto elezioni.
  3. I movimenti dal basso parlano con cognizione di causa dei problemi e immaginano soluzioni ritenute giuste indipendentemente dal calcolo del ritorno elettorale. E poiché i fatti contano e convincono più delle parole, passano dalle parole ai fatti con azioni e iniziative concrete e utili alla collettività.
  4. I movimenti veri danno fastidio ai politici e ai giornali sovvenzionati dalla legge sull’editoria: diffidare da quelli di plastica pompati dai giornali e seguire tramite la rete quelli che, pur senza pubblicità, crescono e agiscono nel territorio attraverso una effettiva e trasparente partecipazione.
  5. Nei movimenti veri le candidature sono di servizio, quali portavoce di una cittadinanza attiva e sono necessariamente “svantaggiose” in termini personali e comunque a termine: la Politica per i movimenti non è certo un mestiere, ma un impegno straordinario e temporaneo.

Per essere efficaci i movimenti veri non devono conquistare la maggioranza: basta loro infiltrare qualche candidato nelle istituzioni per sovvertire dal di dentro la partitocrazia e le sue peggiori pratiche come un antidoto omeopatico. Un tempo i Radicali erano così, prima di diventare politici di professione alla Capezzone.

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