“Le partage sauvera le monde“. La condivisione salverà il mondo. Impossibile non imbattersi in questo slogan se, come me, qualcuno di voi si è ritrovato (più o meno per caso) nei pressi della Place de l’Hotel de Ville sabato scorso. E’ stato il giorno della mobilitazione generale degli indignati e anche qui a Parigi giovani e meno giovani di tutto il mondo hanno fatto sentire la propria voce.
Quale significato attribuire a quello slogan? Beh, alla base c’è sicuramente un messaggio politico: in molti hanno fatto riferimento a una più equa suddivisione della ricchezza, all’evidenza di un mondo in cui pochi hanno troppo e viceversa. Ma secondo me dietro quella espressione c’è anche, e più semplicemente, il senso profondo di questa mobilitazione: quello di mettere in comune le proprie esperienze, i propri problemi; di raccontare e testimoniare per sentirsi meno soli; di contarci, per vedere quanti siamo.
Di certo non eravamo pochi nella grande piazza che ospita il municipio della capitale francese, ma è pur vero che ci si aspettava di più. Non è stato necessario leggere Libération – che parlava di qualche centinaio di persone – per rendersi conto, anche ad occhio nudo, che la manifestazione non è stata l’evento che ci si aspettava. Poca roba, insomma, in confronto alle cifre sbalorditive di Roma (200mila persone), di Madrid (500mila) e anche della stessa Bruxelles (più di 20mila). Ma forse una spiegazione c’è ed è anche logica: ciascuna piazza riflette la temperatura del malcontento della rispettiva nazione. Non è un mistero che qui in Francia – lo testimoniano i dati mostrati dagli esperti durante la campagna elettorale per le primarie socialiste – la disoccupazione è in calo. E non è un mistero che il movimento degli indignados sia germogliato proprio dal problema della disoccupazione giovanile, nel caso specifico in Spagna.
Numeri a parte, questo migliaio di persone ha animato un bel corteo – con tanto di fanfara e canzoni partigiane, – ma soprattutto un bel dibattito, regolato da precisi turni di parola (2 minuti a testa) e, naturalmente, aperto a tutti. Molti degli interventi hanno evocato i soliti temi, triti e ritriti: scarsa credibilità della classe politica – inutile e corrotta (a noi ce lo vengono a dire!), – signoraggio bancario, dittatura delle multinazionali, bisogno di democrazia reale – che spesso assumeva i toni della rivendicazione di una democrazia diretta. Pochi gli esempi concreti. Poche le storie interessanti: lo stesso discorso di un tunisino, che ha detto di riconoscere nella mobilitazione il medesimo germe che ha portato alla “primavera araba”, alla fine non ci ha spiegato il perché. Il concerto delle mani che roteano in aria – quasi come se Pazzini avesse segnato – non è che una debole nota di colore, un simbolo come un altro (più o meno trascurabile) degli indignati di tutto il mondo.
Gli interventi illuminanti, però, non sono mancati. E spesso portavano la firma dei manifestanti stranieri, di cui la piazza era gremita (moltissimi, tra l’altro, gli spagnoli e gli italiani). Una ragazza messicana si scaglia contro la Heineken che sta per distruggere l’ultimo polmone verde del suo Paese e invita tutti a boicottare la marca; un ragazzo americano racconta di Occupy Denver, filiale del movimento americano Occupy Wall Street, e di quanto l’indignazione non conosca confini; alcune donne disperate si fanno portavoce delle oscene condizioni delle femmes de chambre (donne che puliscono le camere d’hotel) in Francia, dove, “trattate come delle scimmie”, sono costrette a firmare dei contratti di lavoro di tre ore (per 15 camere) alla corte delle mastodontiche “filiali” degli Accor Hotels.
E’ un’assemblea interessante, pacifica e civile. Ma a poche centinaia di metri, nei pressi della stazione della metro di Chatelet, lo spettacolo cambia. La polizia scarica fumogeni e manganelli su alcuni manifestanti, secondo i testimoni totalmente pacifici. Sono le solite immagini cruente a corredo della cosiddetta “rivoluzione non violenta”, quasi come se quel “non” tra il sostantivo e l’aggettivo non riuscisse a tenersi in piedi. Alla fine, però, siamo alle solite: la polizia reprime con la violenza e la stampa il giorno dopo non ne parla neanche. E se i manifestanti, tutti insieme, iniziassero a stancarsi delle tante parole e dei pochi fatti e decidessero di smetterla di fare i fighetti e appendessero al chiodo quel principio elegante e dignitoso evocato dal partigiano Hessel? In poche parole: se gli indignati si arrabbiassero davvero?
di Federico Iarlori