Partiamo da Sana’a all’alba sulla jeep di Mohamed. Sulla strada per al-Marib ci aspetta una Toyota pickup piena di militari: la nostra scorta. Attraversiamo montagne, gole e immensi campi coltivati a qat. A Fardah ci fermiamo, soldati compresi, per comprarne diversi sacchetti. Ad al-Marib i militari si congedano e tornano verso la capitale. La città è piena di uomini delle tribù con il kalashnikov. Prima di riprendere la strada verso est ci fermiamo ad almeno tre posti di blocco. Il lasciapassare funziona e i militari si accontentano delle cassette di Ahmad Fathi che Mohamed ha portato con sé da Sana’a. Ne ha una sporta piena. Si prevedono molte soste con tangente da qui a Tarim, nel cuore dell’Hadramawt, nello Yemen.

Il 30 settembre del 2007, nell’attacco avvenuto nella provincia di Jawf, a nord di al-Marib, è rimasto ucciso Anwar al-Awlaki, l’imam americano di origini yemenite, ispiratore di una lunga serie di fatti di sangue, dagli attentati alle Twin Towers, alla bomba fatta esplodere nel 2000 nel porto di Aden contro la nave da guerra americana Cole, alla sparatoria di Fort Hood nel 2009. Secondo Al Jazeera sarebbe stato colpito da un drone della CIA e con lui sarebbero morti altri tre militanti. Tra di loro, un altro americano di origini yemenite, Samir Khan, direttore della rivista Inspire, sezione inglese dell’Aqap, che spesso pubblicava scritti dell’imam. Il presidente statunitense Barack Obama non ha confermato esplicitamente che l’attacco sia stato compiuto direttamente dai servizi segreti USA, ma ha elogiato gli sforzi delle autorità locali e la tempestività del ministro della Difesa yemenita che per primo ha dato la comunicazione della morte dell’imam. Gli Usa temono che la crisi politica che da dieci mesi scuote lo Yemen, con proteste dell’opposizione contro il regime del presidente-maresciallo Ali Abdullah Saleh e scontri tra fazioni militari e tribali, possa favorire le attività di al-Qaeda nel Paese, dove le forze governative hanno difficoltà a controllare vaste aree periferiche, e temono che un cambio di regime possa abbassare il livello della sicurezza. Lo stesso al-Awlaki che nel 2006 era stato arrestato dalle autorità yemenite, diciotto mesi dopo era stato rilasciato per le pressioni fatte dal suo influente clan tribale.

Mohamed e io attraversiamo il deserto di Rub’ al Khali, territorio totalmente in mano alle tribù. In mezzo al nulla incontriamo catapecchie di cartone usate come guardiola per miseri contingenti militari. Al confine con l’Arabia Saudita facciamo qualche chilometro con a bordo un giovane militare che lasciamo al posto di blocco successivo. Le cassette di Ahmad Fathi diminuiscono.

A sud di questa lunga strada desertica, il 15 ottobre è stata messa a segno un’ulteriore vittoria contro il terrorismo. Ad Azzan, villaggio della provincia di Shabwa, Ibrahim al-Bannàa, di origini egiziane, responsabile di al-Qaeda per i rapporti con i media nella penisola arabica, è rimasto ucciso insieme ad altri sei presunti membri dell’associazione terroristica, in tre raid aerei probabilmente americani, ma anche questa volta il ministero della Difesa yemenita è riuscito a prendersi tutto il merito.

Cammelli, copertoni abbandonati sul ciglio della strada a sciogliersi al sole, pollo e ful mangiati in stamberghe sudicie, e poi Shibam, la Manhattan del deserto, con i suoi antichi grattacieli costruiti con mattoni d’argilla e intonacati a calce, e Seyoun, nel centro della valle dell’Hadhramawt, gli alberi di palma, il miele più dolce del mondo, e Tarim, centro culturale islamico della scuola shafaita, con il minareto di Al Mindhar che si eleva verso il cielo.

È un paradiso l’Hadhramawt. Yemeni Times però riporta la notizia di una nuova epidemia di febbre dengue. Già nel luglio dell’anno scorso una relazione del governo yemenita aveva rivelato che la febbre dengue negli ultimi mesi aveva causato la morte di dodici persone nel Governatorato dell’Hadramawt e che altre 1142 avevano contratto la malattia. Oggi, pare che nuovi casi siano stati registrati ad Hajja e a Shabwa.

La mancanza di moderne apparecchiature complica il lavoro dei medici. Una macchina diagnostica può rintracciare il virus nel sangue dal primo giorno di infezione, ma nello Yemen dell’est queste apparecchiatura non sono disponibili. Per fare un esempio, nel distretto di Milhan, tutt’oggi, ci sono sedici strutture mediche per centomila residenti. Solo quattro di esse hanno i generatori per sopperire ai continui black-out, una ha due microscopi e un laboratorio di base, le altre necessitano di tutto. I medici e residenti delle aree colpite lamentano la mancanza di attenzione da parte del Ministero della salute, uno dei più corrotti del traballante governo di Saleh, in passato, durante le crisi di salute pubblica, inefficace e negligente. Il Ministero della salute non ha fatto sforzi per prevenire la diffusione della malattia, generando proteste pubbliche che sono state attaccate dalla polizia. Così, mentre i ribelli di Sana’a chiedono a gran voce al Consiglio di sicurezza dell’Onu di investire la corte penale internazionale contro Saleh per la morte, dall’inizio delle proteste, a gennaio, di 861 persone e il ferimento di altre 25mila, le regioni più isolate dello Yemen, quelle dei clan tribali più indipendenti al governo centrale, rischiano di rimanere isolate e senza aiuti per l’epidemia.

Mohamed e io il viaggio nella valle dell’Hadhramawt l’abbiamo fatto nell’agosto del 2007. Torniamo a casa, Sana’a, dopo diversi giorni. C’è rimasta solo una cassetta di Ahmad Fathi, colonna sonora per tutto il lungo viaggio. Se ci dovessero fermare per chiederci una tangente non ci rimarrebbe che cantare.

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