Il Comitato per l'ordine e la Sicurezza di Torino ha deciso che sarà allestita un'ulteriore 'zona rossa' a protezione dei lavori nell'arco di circa un chilometro: le forze dell'ordine presidieranno i sentieri di montagna
Chiomonte (Torino) – Il secondo cancello di ferro, quello che dalla centrale elettrica non si può vedere, lo apre un alpino in mimetica che, se la naja esistesse ancora, avrebbe l’età di un militare di leva. Otto ore al giorno le passa su un blindato che assomiglia a un piccolo carro armato e in testa ha un caschetto bianco, di quelli per l’edilizia: “Perché ogni tanto qualche pietra viene giù…”. Con la mano indica i fitti boschi alla sinistra del versante nord della Valle di Susa alla sinistra della Dora Riparia, al di là della doppia rete con filo spinato che protegge l’area di quello che dovrebbe essere il primo cantiere italiano del Tav Torino-Lione. A quelle reti, domenica, vogliono arrivare i No Tav: di giorno, a volto scoperto e con un paio di cesoie in mano.
Una manifestazione che non è stata vietata (nonostante molti lo chiedessero, a partire dal segretario provinciale del Pd Paola Bragantini), ma a difesa dell’area del cantiere sarà allestita un’ulteriore “zona rossa” nell’arco di circa un chilometro, come deciso a Torino dal Comitato per l’ordine e la Sicurezza. Per i manifestanti (che hanno respinto la proposta di un taglio simbolico di qualche metro) non sarà facile avvicinarsi a quella che in primavera avevano ribattezzato “libera repubblica della Maddalena”, ma nemmeno impossibile, perché controllare il territorio al cento per cento è assai difficile. Basta salire qualche tornante verso la frazione Ramat di Chiomonte e arrivare – per esempio – alle baite di Sant’Antonio. Qui, accanto alla piccola chiesa del XV secolo, parte un sentiero ripido che indica la via per la centrale elettrica di Chiomonte, la porta del cantiere: “Ogni tanto – racconta un pastore intento ad accudire le sue pecore – passa qualcuno e scende giù di lì”. Da quel sentiero si arriva dritti dritti a ridosso del blindato degli alpini, quello che presidia il secondo cancello di ferro. In mezzo ai quei boschi, non molto tempo fa, è stata trovata addirittura una catapulta, perfettamente funzionante. E poi quello di Sant’Antonio non è l’unico sentiero, ce ne sono parecchi. I valsusini li conoscono come le loro tasche, la polizia ha imparato a conoscerli; domenica la “zona rossa” (i dettagli sono top secret) tenterà soprattutto di impedire l’accesso a quei sentieri.
Il cantiere, intanto, avanza lentamente. All’interno, sembra più che altro una caserma open air che ospita h24 centinaia di uomini tra Polizia, Carabinieri, Esercito, Guardia di Finanza e Corpo Forestale (e domenica saranno oltre mille). L’urgenza principale, in questo momento, è asfaltare. Tra poco, da queste parti, arriveranno pioggia e neve, tutti questi blindati rischierebbero di impantanarsi nelle stradine sterrate sotto il viadotto dell’A32. Incontrare operai al lavoro in operazioni diverse da quelle stradali non è facile. Accanto all’autostrada sono parcheggiate due piccole trivelle per i carotaggi del terreno. Uno e già stato fatto, altri seguiranno. Di più non sembra esserci. Il tunnel esplorativo, la “vera” opera, dovrebbe essere scavato qualche centinaio di metri più in là, ben oltre le doppie reti metalliche, proprio lì dove ancora resiste l’ultimo avamposto No Tav: una roulotte, qualche tenda, una “torre di controllo” in cima a un albero e, soprattutto, una ventina di piccolissimi lotti di terreno acquistati pochi mesi fa e non ancora espropriati. Ecco perché il movimento parla di “cantiere che non c’è”.
Ed è difficile dar loro torto, ma sentirsi a proprio agio appena fuori dal cantiere è molto difficile. I muri di contenimento della strada che scende dal centro di Chiomonte sono un libro a cielo aperto fatto di slogan bellicosi (“Sbirri infami, benvenuti in Vietnam”), programmatici (“La violenza è questo mondo di merda e tutto quello che lo rappresenta”) visionari (“I folli aprono strade che i prudenti seguiranno”) e fin lì tutto rientra nel copione. Più a monte, tuttavia, i piloni di cemento armato alti sessanta metri del viadotto Ramat sono pieni di inquietanti quanto anacronistiche stelle a cinque punte vergate accanto a slogan, spesso, fuori tempo massimo. E purtroppo la distinzione tra valligiani “buoni” e anarchici “cattivi”, per la verità, è piuttosto difficile da individuare.
Il fronte, infatti, è da sempre compatto e non sembra subire scossoni. Il presidente della Comunità Montana Sandro Plano, che non parteciperà a una manifestazione che ritiene “oltre la legalità”, non se la sente di censurare più di tanto il più mediatico dei leader della protesta, l’ex bancario Alberto Perino, che apertamente ha difeso il diritto a “tagliare le reti” (la Procura di Torino, per evitare equivoci, ricorda che “chi si renderà responsabile di atti conseguenti all’uso di cesoie e bene che sappia che commetterà un reato”), i comitati si riuniscono quasi ogni sera e – con l’eccezione della frangia più pacifista – non sembrano intenzionati a rinunciare. I “duri” di Askatasuna garantiscono che non accadrà nulla, tuttavia non è da escludere che la nuova “zona rossa” possa stuzzicare l’amore per lo scontro con la polizia piuttosto diffuso nell’ambiente.