Finalmente è arrivata la notizia: hanno ucciso Gheddafi. E già nella prima parola della mia frase c’è la maledizione del tiranno: è in grado di spingerti a essere contento, perché qualcuno che per buone ragioni detestavi è stato raggiunto e abbattuto. Ma l’ultimo delitto del tiranno è farti uguale a lui, portatore di un’immensa produzione di sangue. Infatti, poco dopo l’annuncio, impreciso e contraddittorio, arrivano le immagini disumane. Coloro che, sterminati sulle piazze perché chiedevano libertà, sono diventati ribelli e hanno preso le armi, hanno compiuto il rito barbaro della vendetta, dell’umiliazione e della distruzione fisica del corpo odiato fino al suo punto estremo.

Queste ore ci dicono che il cadavere sfigurato di Gheddafi non è l’ultimo atto della violenza né l’inizio di una nuova vita. È solo la fine di una lunga tragica storia di dominio assoluto divenuto sempre più folle e ridicolo, uno spettacolo torbido, recitato in parte anche in Italia, che ormai sembrava senza fine. Poi questa fine spaventosa è arrivata. Ma il male che Gheddafi, come altri squallidi tiranni, ha fatto al suo Paese e al mondo (mai dimenticare il suo attivo ruolo nel terrorismo, mai dimenticare l’orrore freddo di Lokerbie, mai dimenticare le sue carceri e le sue esecuzioni) dura due volte: durante il suo potere, perché tanti servi si inchinano, si piegano, si conformano. Parlo soprattutto dei profittatori un po’ ignobili che cercavano favori baciandogli la mano; parlo di quei governanti che gli restituivano in pompa magna il boia di Lockerbie per rientrare alla corte dell’assassino.

La seconda volta è adesso, per tutte le crudeltà, le vendette, le esecuzioni che si compiranno, in apparenza come rito di libertà, ma invece come irresistibile imitazione del maledetto esempio.
Il mondo civile – come noi definiamo noi stessi – ha poco da insegnare. Basta dire “speriamo”, o dovremmo lavorare con tutte le nostre forze per interrompere la catena maledetta che porta da violenza a violenza, da vendetta a vendetta, per guadagnarci una libertà mite, da conservare e offrire come non abbiamo mai fatto?

Il Fatto Quotidiano, 21 ottobre 2011

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