Rileggi la prima parte del racconto letto in occasione della manifestazione culturale Officina Italia.

Ma adesso aveva preparato i pasticcini e il tè e vuoi che ti versi il tè? gli chiedeva e lui continuava a sfogliare le fotografie senza dire né sì né no, poi fece girare una cordicella di spago attorno al mazzo delle foto e armeggiò un poco per chiuderlo.
«Ecco, come si vede che non fa più niente da solo, come si vede che ha tre segretarie. Non sei più capace di fare un pacco…».
Lui senza rispondere le accennò solo il punto in cui doveva mettere il dito per fare il nodo. Lei posò il dito dove lui le indicava con un movimento vezzoso. Ogni loro serata, ogni loro gesto, ogni loro amico e conoscente era stato fotografato, non avevano perso niente. Volendolo, lo potevano sempre ritrovare. Che martirio…
«Chi è questa?» chiesi sfilando una foto di donna di profilo, abbronzata, al mare, forse su una barca.
«Come, chi è? Non vedi, sono io!».
«Non è lei», disse lui.
«Come non sono io?» disse lei con un tono per la prima volta roco, addolorato, cavernoso. «Come non sono io?».
«Non sei tu».
«Ma che cosa stai dicendo?».
«Guarda questo profilo!» disse lui chiamandomi a giudice, «vedi un po’ se può essere lei».
Io non sapevo che dire, forse poteva essere lei, le fotografie possono essere false, tutti lo sanno. Molti ci contano, anche, su quanto possono essere false le fotografie.
«Vuoi dire che non sono io perché sono troppo bella?».
«Non voglio dire questo. Dico che non sei tu».
«Ma guarda, ma guarda», la voce di lei rantolava.
«Forse potresti essere tu», dissi, «ma sai…».
«Ma sono io!» urlò lei.
«Qui c’è Frank Vocca. Tu parli di Frank Vocca nel libro?».
«Parlo di Frank Vocca? Certo… No, non so. Parlo di Frank Vocca nell’autobiografia, sicuramente lì parlo di lui, ma non mi ricordo se ne parlo in questo, forse no, non ne parlo».
«Se non ne parli lasciamo perdere, perché la giapponese mi ha segnato che le altre foto di Vocca, quelle migliori, stanno nella parte d’archivio ancora non schedata. La giapponese è precisa».
«Allora vado a prendere le fotografie che ho io», disse lei con una specie d’esaltazione. «Voglio andare a prendere le foto di quando sarò morta!».
«Che cosa sono le foto di quando sarai morta?».
«Sono le mie foto più belle, quelle che voglio che si vedano quando sarò morta».
«Ma figurati….».
«Le vado a prendere».
«Le trovi?».
«Certo che le trovo, anche in questa confusione. Tu credi che io sia proprio fuori? Io le trovo…».
«È una bella casa, la tua».
«Quale bella casa? Lo vedi come è ridotta, non ci sto, non ci sto più, questa è la casa in cui mi ha messo questo signore…».
«Ma è in pieno centro, è perfetta!».
«Sì, la posizione è buona, ma le sue amanti stanno meglio. Però vedi quel quadro, lo vedi? Quello è un pezzo da museo… Lo riconosci, no? La “Venere seduta” di Piero, è uno dei suoi quadri più belli. Grazie, amore, per avermelo dato. Io sono contenta che lui abbia questo successo, che credi?».
«Vai a prendere le foto di quando sarai morta».
«Vado, vado».
C’erano anche le immagini di lui, quand’era giovane. Una, sulla neve, a Saint Moritz, indicava la scritta dietro, era del ’56. Allora sembrava più vecchio, allora non giocava a fare il giovane, non aveva il codino, né la giacca larga, “destrutturata”, né le scarpe da ginnastica; era vestito sobrio, di scuro.
«Questo è lei?».
Mosse appena il capo, i suoi gesti erano parchi e lenti: «Sì».
«Ecco. Che cosa diresti adesso se dicessi che non sei tu? Ma tu guarda, non ti ricordi neanche com’ero…».
«Questa è bellissima. Qui eri molto bella», osservai.
«No, qui già cominciavo a essere un mostro. Non vedi che ho il faccione?».
«È bello il sorriso. Avevi un bel sorriso».
«Devi vederne altre per capire quant’ero bella. Quella dove ho le gambe nude. Dov’è quella dove avevo le gambe nude?».
«È questa?».
«Ecco, questa. Vedi, questo è il costume del modello che portava Brigitte Bardot».
«Vuoi che vedano questa quando sarai morta?».
«No, scherzavo. Prendi qualche altro pasticcino».
«Ti ringrazio, ma ne ho mangiati troppi. Questa pure è bella». Era lei che entrava in un ricevimento al braccio di un’altra donna.
«Questa foto mi ricorda un’esperienza dolorosa. Molto, molto dolorosa…».
Indugiava come per spingermi a chiederle quale? Quale esperienza? Era la sera che ti ha detto che ti lasciava?
«Quale esperienza?» chiesi, quasi di sfuggita, per non fare pesare l’indiscrezione.
«Molto… molto dolorosa. Che serata orribile!» ripose la foto nel mucchio. Non commentai, mi rivolsi a Piero, dissi: «Non mi sembra che ci siamo molto con queste fotografie, non sappiamo bene nemmeno che cosa cercare. Forse è il caso che io venga a indagare nel suo archivio, che mandi una persona… Ma poi, è proprio necessario metterle, queste fotografie?».
«Secondo me, no» disse l’artista. «Conta il testo».
«Che cosa stavate dicendo?».
«Stavamo dicendo che conta il testo», le ripeté lui scandendo le sillabe, lento e paterno. «È importante il tuo libro, non le fotografie».
«Non è vero, la gente vuole le fotografie, questi libri si vendono per le fotografie».
«Allora bisogna prendere un appuntamento al suo studio».
«Certo, si può fare».
«Figurati se si può fare. Quest’uomo non ha mai tempo. È un miracolo averlo qui per un’ora, è un assoluto miracolo…».
«Lunedì».
«Lunedì no, devo fare un’operazione».
«Come devi fare un’operazione?» saltò su lei.
«Cioè no. Devo fare gli accertamenti per l’operazione di cataratta. Devo andare dall’oculista».
«Anche io devo andare dall’oculista».
«Vai dal mio. Te l’avevo già dato l’indirizzo, no? È il migliore che c’è».
«Allora possiamo fare martedì, mercoledì?».
«Certo, certo. Ci telefoniamo, ci mettiamo d’accordo. Mi chiami un taxi?».
«Anche io devo andare. Devo andare alla mostra di Fishman. Mi accompagni? Mi accompagni alla mostra di Fishman?» mi chiese.
«Ti ci accompagno. Giorgia, prendiamo un taxi insieme, ma dopo devo andare».
«Devi andare? Dove devi andare?»
«Ho un impegno».
«Ah, hai un impegno? Quand’ero giovane, nessuno aveva impegni, mi volevano accompagnare tutti dappertutto. Adesso tutti hanno impegni. Chissà perché! Chissà poi perché!».

«Ecco. Già andato via. È sempre stato così impegnato. Prendi un altro cioccolatino…».
«Giorgia, ne ho mangiati tanti, davvero non posso più».
«Prendi tutta la scatola».
«Ma non posso… sono buoni…»
«Certo che sono buoni! Pensi che te li avrei dati se fossero stati cattivi?».
«Ma possono servire a te, scusa, per un altro ospite…».
«Quale altro ospite? Qua non viene nessuno. Tu quando credi che verrà un’altra volta, lui? Tra sei mesi, tra un anno? Tu non sai che miracolo era averlo qui!».
«Be’, adesso non fare la vittima. La settimana prossima verrò io».
«E quando verrai ne troverai pronta un’altra scatola», ribadì vezzosamente.
«Se è così, va bene».
«Sai… io, la prossima settimana, non ci voglio venire allo studio di Piero… tu non sai… quello è un bordello!».
«Come un bordello? In che senso?».
«Un bordello! Un bordello! Lo sai che cos’è un bordello? Lo sai  che cosa si fa in un bordello? La giapponese è una delle sue amanti, tutte in quell’ufficio sono sue amanti. Gli fanno i pompini. Certo, quando io gli dovevo comprare anche i calzini, non era così. È cominciato quando ha fatto i soldi, ma io sono contenta che li abbia fatti, io sono contenta che abbia avuto successo, cosa credi? Che sia una star. Adesso è una star».
«Giorgia, se devi andare forse è meglio che chiamiamo un taxi».
«Aspetta, vado a prepararmi».

Così rimasi solo, in mezzo alle pile di quei libri morti, nei corridoi creati dalle cataste dei giornali, dietro la parete alzata dagli schedari di metallo dai cassetti arrugginiti, in quel cimitero di carta.
E su una pila di libri avvistai la Trilogia di New York di Paul Auster, ancora incellofanata, un libro nuovissimo che galleggiava su quello sfascio come il corpo d’Ismaele aggrappato alla bara di Quiqueg dopo il naufragio del Pequod.
Dovevo farlo. Mi guardai attorno, poi lo rubai. Lo presi infilandolo subito nella busta con le poche fotografie che eravamo riusciti a racimolare. Avevo sentito un impulso a farlo, un impulso potente come di rado mi è successo nella vita. Lo dovevo fare.

Poi uscì e mi chiese devi andare in bagno? No, risposi.
«No, non hai capito. Tu devi andare in bagno. Mia nonna diceva che prima di uscire bisogna sempre andare in bagno. Vuoi far dispiacere mia nonna?»
«Per nessuna ragione».
In bagno pensai adesso mi scopre. Adesso apre la busta per infilarci un’altra fotografia e ci trova dentro il libro. Che cosa mi dirà, urlerà che sono un ladro, che sono venuto a casa sua a rubare, oppure sarà fredda, sibilerà che non capisce, che bastava che glielo chiedessi, se proprio lo volevo, oppure strillerà che altro hai preso, ladro, che altro hai preso da qua dentro?
Invece sulla porta dell’ascensore è scoppiata a piangere.
«Hai capito perché sto scrivendo questi libri», singhiozzava, «hai capito? Perché non voglio morire come una casalinga, solo per questo, perché non voglio finire così».
Le ho detto che cosa ti viene in mente? Che parole dici? Morire…

Io lo so che tutto questo è esagerato e sinceramente non credo che, dopo la nostra morte, ci tocchi ancora di vedere qualcosa o d’incontrare qualcuno. Però, fosse anche dalla voce del silenzio, sono sicuro che mi verrà chiesta ragione di tutte le persone, gli animali e le cose che nel corso della vita ho abbandonato. Allora tenterò di scolparmi dicendo che salvai un libro da un cimitero di carta e lo portai a casa e poi lo lessi anche, avendolo tolto a una donna che non era più in grado di capirlo, io che allora, invece, avevo tutti i sensi intatti.
Io lo so che questo sembrerà eccessivo, ma è contro la mia stessa volontà che ne sono sicuro. Io lo sento che mi sarà rinfacciato il lamento di quel gatto e che i miei atti di misericordia sembreranno gocce nel mare e allora pagherò per tutto.

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