Sulla violenza “incappucciata” che ha impedito a duecentomila “indignati” di manifestare come volevano si è scatenata la prevedibile orgia di ipocrisia. Pochi hanno infatti le credenziali per affrontare il problema, e nessuno tra i soloni e le cheerleader di un regime che teorizza l’eversione costituzionale e quotidianamente la pratica. Tra la violenza di “er Pelliccia” – che tale è – e la violenza di Berlusconi che programma l’assedio al quotidiano La Repubblica e l’assalto al Palazzo di giustizia di Milano, c’è un abisso, una sproporzione ciclopica: quella che intercorre tra la violenza di una puntura di zanzara e la violenza delle fauci di un caimano. Chi non ha condannato e non condanna la seconda (infinitamente più grave) non può impalcarsi a censore della prima. Questo giornale è perciò tra le poche voci ad avere le carte in regola, moralmente e politicamente, per discutere sulla violenza. Che va analizzata, oltre che condannata, altrimenti si contribuisce per omissione al suo replicarsi. Capire non è giustificare (è perfino assurdo doverlo ricordare), ma condannare senza cercare di capire può essere perfino peggio che giustificare.
Perciò, rigorosamente: la disperazione produce violenza. Una più grande disperazione non può che accrescere la violenza. Solo chi opera concretamente per diminuire la disperazione sociale e aprire di nuovo alla speranza è legittimato a condannare la violenza: gli altri di fatto l’alimentano e incentivano. Ma la disperazione di oggi è il prodotto diretto di una smisurata diseguaglianza (lo scrive perfino il Corriere della Sera, per la penna di Massimo Mucchetti) che ogni giorno cresce mostruosa e spudorata, grazie a un establishment che ha per unica bussola un’avidità senza freni, spacciata addirittura per “libertà”. E un disprezzo per la legalità che non ha precedenti.
Perciò, se vogliamo porre un argine alla violenza prossima ventura dobbiamo colpire subito la metastasi della diseguaglianza impazzita. Ogni altro atteggiamento è connivente con la violenza, anche se contro di essa invoca leggi eccezionali. Questa è l’emergenza: la diseguaglianza impazzita. Non affrontarla significa mettere a repentaglio la convivenza civile nelle sue basi più elementari. È dunque improrogabile dare vita ad una “alleanza per la speranza”, che abbia come obiettivo IMMEDIATO una grande redistribuzione della ricchezza. Nell’antico Israele era previsto ogni sette anni l’anno sabbatico: i debiti venivano cancellati. Un freno, una difesa immunitaria, una compensazione contro la dismisura di Mammona che mette a repentaglio la convivenza di un popolo.
Di questo abbiamo bisogno ora: una redistribuzione che tolga SUBITO a chi in questi anni si è arricchito oltre ogni decenza (e quasi sempre contro ogni legalità) per dare a chi è stato espropriato del futuro, del lavoro, della dignità. Una redistribuzione immediata di almeno cento miliardi di euro, dai troppo ricchi ai nuovi poveri. Cento miliardi di redistribuzione riaprirebbero effettivamente alla speranza, contrasterebbero l’emergenza di una spirale diseguaglianza/disperazione/violenza/repressione/più diseguaglianza/più violenza che altrimenti trascinerà nel baratro l’Italia, già stremata da un regime che dell’illegalità e della menzogna ha fatto il suo lucro quotidiano. Come realizzare questa redistribuzione d’emergenza? I mezzi tecnici per l’operazione speranza non mancano certo. Basta volerli usare. E prelevare (in modo progressivo, non in modo proporzionale) sulle ricchezze reali accumulate (portandole TUTTE alla luce, non solo quelle immobiliari: quelle espatriate in primis). Ai finti liberali che comincerebbero a starnazzare di “esproprio proletario” andrebbe risposto che si tratterebbe semmai di una (parzialissima) restituzione civica, visto che l’unico esproprio avvenuto nei decenni trascorsi lo hanno operato cricche, caste e grandi evasori, contro i cittadini che non hanno evaso, falsificato bilanci, truccato appalti. Contro i lavoratori dipendenti, i disoccupati, i precari, i pensionati, insomma. Sul “come” realizzare tale restituzione potrebbe esercitarsi utilmente l’immaginazione sociologica ed economica, i talenti non mancano. Purché la restituzione sia tangibile, in detassazione immediata dei salari, in servizi di welfare direttamente fruibili, in potenziamento di beni comuni (le uniche “grandi opere” urgenti: il wi-fi per tutti e dappertutto, ad esempio). Un volano virtuoso di consumi/investimenti/consumi, oltretutto. Quali sono le forze che dovrebbero appoggiare questa misura d’emergenza? Tutte quelle che sono estranee all’iceberg del privilegio impazzito (e sempre più spesso illegale), che sta provocando l’inabissamento dell’Italia. Tutte le forze che dicono di voler salvare l’Italia, senza distinzione tra partiti, movimenti, sindacati. Non dovrebbe essere difficile, per questa “emergenza speranza”, trovare un afflato di responsabilità e di elementare equità che accomuni da Bersani a Landini, da Camusso a Raparelli (passando per qualche “ricco” cui ancora residui qualche carato di sensibilità civica).
Ogni distinzione deve venir meno, di fronte all’emergenza civile che stiamo vivendo, e alla necessità stringente della “grande redistribuzione”. In fondo, cento miliardi sono meno di quanto viene evaso ogni anno: la ricchezza c’è, è solo la smisurata avidità di alcuni che produce la crescente disperazione di molti. A parole tutti riconoscono la barbarie morale e anche l’assurdità economica del baratro di diseguaglianza che sta lacerando il paese. Mettiamo perciò tutti di fronte alla responsabilità di far seguire alle parole i fatti. O di confessarsi mallevadori della catastrofe incombente.
Il Fatto Quotidiano, 21 ottobre 2011