Michela Murgia ha raccontato sulle pagine di Saturno 2.0 come e, soprattutto, dove ha imparato come la narrazione sia "un'attitudine relazionale che si sviluppa con grande fatica, buoni maestri e una docilità alla disciplina"
di Michela Murgia
Invece io ho imparato a raccontare storie per iscritto in una scuola severissima dove la disciplina era un parametro non negoziabile, pena l’esclusione dalla narrazione. Il mio master in scrittura l’ho fatto dal 2000 al 2007 dentro a una comunità virtuale di gioco on line. Era una cosa molto lontana dai giochi dalla grafica cinematografica che già allora tenevano incollati gli adolescenti alle tastiere; non c’erano avatar di impressionante realismo come in World of Warcraft né trame chiuse dove le possibilità narrative, per quanto numerose, erano comunque limitate a quelle che il programmatore aveva previsto per lo sviluppo di quella vicenda, come avveniva in Final Fantasy. Il posto dove giocavo io era molto più simile alle partite di Dungeons & Dragons, ma senza i dadi. La prima volta che ci entrai mi trovai davanti a una chat bianca che mi fece lo stesso effetto che mi fa oggi la pagina vuota quando sono in procinto di cominciare un romanzo. Il diktat a cui dovevo obbedire non era molto diverso: la storia che volevo creare là dentro avrebbe avuto dignità di lettura solo nella misura in cui fossi stata capace di renderla appassionante con la sola parola dentro a un sistema di regole coerenti dall’inizio alla fine. Lot – così si chiamava la città virtuale – era frequentata da più di quarantamila giocatori che la abitavano con i loro personaggi 24 ore su 24; di regole ne aveva un’infinità e solo un centinaio di giocatori era così bravo da riuscire a fare narrazione rispettandole tutte e allo stesso tempo tenendo alta la passione del racconto: ogni loro giocata era seguita in silenzio da decine di giocatori/lettori che cercavano di carpirne la tecnica. Ci misi pochi giorni a capire che se volevo essere una di quei cento dovevo cominciare bene sin da subito. In posti come quello il momento dell’iscrizione è già un atto narrativo, perché il personaggio va costruito indicando non solo sesso, allineamento morale e razza, ma anche il background.
Scoprii che la malattia dei giocatori lottiani era l’insonnia: se volevo giocare in ruoli complessi la notte era l’unico tempo libero che avessi. Ammetto che credo sia stato proprio per questo che a un certo punto della mia vita ha cominciato a sembrarmi interessante il lavoro del portiere notturno. Là dentro ho conosciuto insospettabili narratori di mestiere, ma anche talenti che non hanno mai scritto una riga fuori da lì perché facevano il medico, la studentessa, il camionista, la pubblicitaria, il programmatore o la mamma; però, qualunque cosa fossimo di giorno, la notte eravamo tutti scrittori. Nella fase finale della mia avventura on game, quando ormai giocavo da sei anni, ho rinunciato al gioco attivo e mi sono dedicata a costruire le “quest”, le storie che dovevano giocare gli altri. Oggi raccontare è il mio mestiere, ma è a Lot che ho imparato che la narrazione è un gioco dove vinci solo se riesci a convincere l’altro a stare nella storia insieme a te fino alla fine, a costo di dimenticarsi che il sole sta per sorgere.
Saturno- 21 ottobre 2011- N°31