Mentre a Roma un’oceanica manifestazione contro il governo veniva rovinata dai geni dell’insurrezionalismo de noantri, in centinaia di città del mondo gli indignados scendevano pacificamente in piazza contro la crisi, i governi e la finanza che fa impazzire l’economia. Risultato: in Italia stiamo – ma davvero – discutendo di fideiussioni bancarie per autorizzare i cortei, così potranno sfilare solo Montezemolo o Matteo Colaninno con striscioni di cachemire per chiedere meno tasse sugli yatch.

A New York il dibattito è se non altro più divertente, perché mette in scena l’eternamente irrisolto dialogo uomo-donna. Succede che due filmaker – Steven Greenstreet e Brandon Bloch – abbiano girato un video interamente dedicato alle ragazze di Occupy Wall Street, dove le girls della protesta sono definite “hot chicks”, ovvero “gnocche”. Alcune (ma non tutte) fanciulle ritratte nel video non l’hanno presa bene e Mtv sta già organizzando un reality della protesta.

Sui siti americani tutta la faccenda ha suscitato un gran baccano: il Corriere della Sera riportava venerdì che Jezebel.com, sito del magazine femminile, ha definito gli autori “ragazzetti arrapati che strumentalizzano la figura femminile riducendola a mero oggetto sessuale. Esagerando decisamente. Il video pubblicato dà voce alle ragazze e più che un oltraggio sembra un omaggio: dentro ci sono facce di ventenni che sorridono, parlano dei motivi della protesta, camminano sfoggiando capelli di tutti i colori, tatuaggi e piercing al naso.

Sono semplicemente delle ragazze del 2011. Non è osservandone la bellezza che si minimizza il loro pensiero: anzi, questa posizione dà ragione alla tirannia dell’immagine. La bellezza, come la femminilità, non è in sé un peccato. Le donne fanno cortei con i loro abiti, il loro modo di truccarsi e sistemarsi i capelli. E allora? Vogliamo tornare ai peli sotto le ascelle come simbolo d’indipendenza? Le femministe francesi – già dal 2008, ma vivono una nuova ribalta dopo lo scandalo Strauss-Kahn – si sono costituite in un collettivo chiamato “le barbe”: si presentano a incontri pubblici indossando barbe finte contro il potere maschile.

Trovo tutto questo poco efficace e anche un po’ ridicolo. Capisco che dire queste cose in Italia è pericoloso: siamo un paese dove il primo ministro, che si autodefinisce “galante”, dice a una contestatrice: “Ci vediamo fuori, lei è anche molto carina”. Non so cosa farebbero le pelose contestatrici d’Oltralpe se si trovassero, anche solo per un quarto d’ora, nel “paese delle carfagne”. Dove dal cabaret televisivo scosciato si passa d’emblée a un’aula del consiglio regionale, con una puntatina alle feste “eleganti” del sultano.

Tra le barbe e le veline però c’è un interessantissimo universo femminile in mezzo. Mi pare che le ragazze di Occupy Wall Street lo rappresentino bene. Manifestano e lo fanno da donne, semplicemente perché non sono maschi. Roberto Vecchioni ha scritto una (stupida) canzone sul tema, urlando al mondo che non voleva accanto una “barricadera che non c’è mai la sera”. E tuttavia, parlo da donna, mi sentirei assai più a disagio con la barba che con una gonna. Indossando la quale non ho nessuna difficoltà a confrontarmi – intellettualmente, professionalmente, umanamente – con il mondo maschile. Certamente popolato da arroganti, complessati, immaturi, nonché sessualmente disturbati personaggi di potere. Però anche da alcuni interessanti individui che ci restituiscono non tanto il mistero (in quanto a complessità, bisogna dirlo, non sono dei campioni), ma uno sguardo diverso sul mondo. Saremmo salve, per un pelo della barba, se ci liberassimo una volta per tutte dall’odio di genere.

In alto, Amber, una manifestante del movimento Occupy Wall Street (foto LaPresse)

Il Fatto Quotidiano, 23 ottobre 2011

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