Un paio di decenni fa, commentando l’ennesima sconfitta contro la rivale di sempre, l’allora centravanti del Tottenham e della nazionale inglese Gary Lineker espresse in poche ma eloquenti parole la sua idea di football. Il calcio, spiegò, è uno sport relativamente semplice, “si gioca in 11 contro 11, le partite durano 90 minuti, e alla fine vince la Germania”. La partita sulla crisi europea dura da ormai da quasi due anni e, salvo improbabili minuti di recupero, dovrebbe volgere a una conclusione (se non proprio “alla” conclusione) questo mercoledì. Ma a 48 ore dal vertice di metà settimana sembra esserci già una certezza: in ossequio alla regola di Gary, il contrasto di opinioni tra Parigi e Berlino sembra essersi ormai risolto con la scontata vittoria dei tedeschi.

L’Ue ricapitalizzerà le banche con un’iniezione complessiva da circa 100 miliardi di euro. Ma il fondo salva-Stati già attivo in tre Paesi (Grecia, Irlanda e Portogallo) non sarà trasformato in una banca come chiesto da Sarkozy sollevando così la Bce da uno scomodo coinvolgimento, ovvero escludendo quell’eventualità su cui la Merkel aveva posto il veto. Difficile individuare in pieno tutti i fattori che hanno giocato per Berlino ma certo è possibile avanzare per lo meno due ipotesi che non temono smentita. Primo, in un confronto con la Germania, l’influenza francese sulla Bce resta ridotta e la mancata risoluzione della grana Bini Smaghi (che non ha intenzione per ora di abbandonare il suo seggio del consiglio direttivo dopo la mancata nomina a numero uno di Bankitalia) ne è un esempio decisivo. Secondo, la Francia ha dovuto pagare dazio di fronte alla necessità di un accordo generoso sul fronte bancario, visto che l’esposizione dei suoi istituti ai titoli sovrani e privati del sistema greco resta tuttora quasi doppia rispetto a quella di Berlino.

L’intervento a sostegno delle banche resta il più grande risultato raggiunto dai negoziatori. Un obiettivo condiviso dalle due economie leader dell’area, consapevoli ormai di come il tempo stringa. Centrale, in questo senso, la risoluzione definitiva del default greco, ancora una volta l’aspetto decisivo. A rigor di definizione, in realtà, Atene ha raggiunto il fallimento tecnico più di un anno fa, quando aveva ricevuto il primo finanziamento esterno sul fronte istituzionale. Solo che lo scambio ipotizzato allora, prestiti in cambio di tagli alla spesa, non ha funzionato: l’economia si è contratta, la sfiducia è cresciuta e la speculazione (prima sui derivati poi direttamente sui titoli sovrani del mercato secondario) ha fatto il resto. Se la Grecia fosse l’Argentina, oggi sarebbe già ufficialmente in bancarotta e si preparerebbe ad offrire un concambio ingeneroso ai suoi creditori. Ma siccome di mezzo c’è la stabilità dell’euro ecco che la procedura si inverte. Prima si studia l’haircut, poi, una volta raggiunta l’intesa, si procede alla dichiarazione di default. Il che, salvo sorprese, è esattamente ciò che accadrà mercoledì.

Inizialmente, si era fatta strada l’ipotesi di un default morbido, con l’haircut, il taglio sul valore delle obbligazioni, fissato al 21% del valore nominale. Oggi, invece, si è capito che la soglia minima di sostenibilità dovrà essere collocata più in alto, almeno al 50%. Il Fondo monetario internazionale, in realtà, si è spinto ancora oltre, sollevando l’asticella di altri dieci punti. Una richiesta esosa, forse, ma che non potrà essere ignorata troppo facilmente. Sul tavolo del vertice di mercoledì, ci sarà anche la richiesta di un maggiore coinvolgimento del Fmi e, ovviamente, dei suoi contribuenti che, come noto, non sono solo gli europei. Tra le altri ipotesi c’è anche la richiesta di intervento delle economie emergenti e, in generale, di quei Paesi che vantano una maggiore presenza di liquidità nei loro fondi sovrani (la Cina quindi ma anche la Norvegia). Tutto, insomma, pur di ampliare le possibilità di intervento e scongiurare un effetto domino scatenato dal default ellenico.

La questione davvero irrisolta, però, resta quella del sistema bancario. Per mesi le analisi degli osservatori si sono concentrate sulle esposizioni europee (obbligazioni sovrane e corporate bond dei Paesi a rischio). Oggi, al tempo stesso, a tornare a galla è anche un altro spettro mai scacciato: quello delle securities che usano come collaterale il mercato immobiliare Usa. In altri termini i titoli tossici della prima ora. Le banche europee non li hanno ancora smaltiti, in compenso li hanno iscritti a bilancio prezzandoli con un valore nominale ormai privo di senso in quanto decisamente superiore a quello attribuito loro dal mercato. Come a dire che se gli istituti li liquidassero ricaverebbero una cifra molto bassa con una perdita enorme rispetto all’investimento iniziale. Un anno fa il peso di questi attivi illiquidi sul bilancio di Deutsche Bank corrispondeva al 209% del patrimonio. Per Credit Suisse si arrivava al 125% contro il 99,9% di UBS. E il risultato peggiore di tutti? Manco a dirlo lo portava a casa Dexia, la banca franco-belga che sta letteralmente togliendo il sonno al Continente. Il suo rapporto toxic assets/patrimonio si attestava allora all’incredibile soglia del 598,5%. Nello scorso mese di aprile, riferì il Sole 24 ore, la situazione era migliorata anche se i dati non apparivano ancora rassicuranti (i 58 miliardi di assets tossici di Deutsche Bank erano scesi a 47, Ubs aveva dimezzato il rapporto con gli attivi totali). Nessuno di questi istituti ha finora avuto problemi a superare gli stress test.

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