Andrea Moro, dal blog Noisefromamerika sul Fatto (e in seguito anche dal sito del collettivo), ha replicato ad un mio intervento sul “Nobel per l’Economia”. Tanti sono i temi toccati, ma qui mi limiterò a discutere il più importante, ovvero la capacità di alcuni economisti e di alcune dottrine economiche di saper fare delle previsioni e dunque dell’utilità del loro quadro teorico per interpretare la realtà.
Chiariamo subito che il punto non è se un fisico, biologo, ecc. possa o meno esprimere delle opinioni su faccende economiche visto che un economista non commenta di fisica, biologia, ecc. La situazione non è simmetrica poiché se si cercano di orientare le scelte in campo economico riportando le proprie legittime opinioni, bisogna mettere in conto che si possono ricevere delle critiche. La discussione pubblica non si svolge in base alla disamina dei contenuti tecnici della disciplina economica, bensì sull’analisi degli effetti delle scelte economiche sulla vita dei singoli e del paese: dunque, sulla questione politica che riguarda e interessa tutti.
Com’è dunque assodato, Alfred Nobel nel suo testamento non scrisse d’istituire un premio per l’economia. Parimenti non menzionò un premio per la matematica. Per non ripetere la confusione creata dal “Premio in Scienze Economiche della Banca di Svezia in memoria di Alfred Nobel”, istituito 70 anni dopo il premio Nobel vero e proprio, i matematici hanno istituito il premio Abel. Questo dovrebbe essere una sorta di “Nobel per la matematica” ed è assegnato dall’Accademia Norvegese della Scienza e della Letteratura, che lo attribuisce dopo una selezione effettuata da un comitato composto da affermati matematici. I vincitori sono senza dubbio degli studiosi che hanno ottenuto risultati fondamentali per la disciplina.
Perché dunque nessun quotidiano mette in prima pagina, ogni anno, chi sono stati i vincitori del premio Abel (o della Medaglia Fields, o del Premio Dirac, ecc.) come accade per gli altri cinque premi Nobel veri e propri più per quello dell’economia? Mi sembra ovvio che il punto chiave della faccenda è che i promotori del premio della Banca di Svezia, conoscendo i principi basilari del marketing, sono riusciti, con la “violazione di un marchio di successo”, a fare pubblicità a costo zero. Questo è il senso della critica di Peter Nobel e degli altri che hanno fatto notare il problema.
Ripartiamo ora dal pezzo di Robert Lucas, che avevo riportato come eclatante esempio di un’asserzione dovuta a uno dei più noti economisti dell’ultimo quarto di secolo e smentita dai fatti in seguito avvenuti: “Io sono scettico sulla tesi che il problema dei mutui subprime contamini tutto il mercato dei mutui, che la costruzione di alloggi avrà una battuta d’arresto, e che l’economia scivolerà in una recessione. Ogni passo in questa catena è discutibile e nessuno è stato quantificato. Se abbiamo imparato qualcosa dai passati 20 anni è che c’è parecchia stabilità incorporata nell’economia reale”.
Per capire il motivo della mia personale critica è necessario fare un esempio e un parallelo con i terremoti. E’ noto che allo stato attuale non si possono prevedere i terremoti nel breve periodo. Il compito di chi studia i terremoti sta nell’identificare una zona sismica dove in seguito si potrà applicare una politica di prevenzione, consapevoli che in quella zona prima o poi avverrà un terremoto.
Normalmente, sia la zona sismica che quella non sismica sono in una situazione di stabilità, sebbene la zona sismica sia caratterizzata da faglie lungo le quali possono verificarsi degli scorrimenti lenti senza terremoti oppure possa essere sede di piccoli terremoti premonitori della grande scossa. Si può immaginare la prima situazione di stabilità come quella di una pallina in cima ad una montagna e la seconda come una pallina in fondo a una valle. A un certo punto, in maniera al momento imprevedibile, passa un uccellino e sposta la pallina. E’ chiaro che se la pallina si trovava in cima alla montagna (zona sismica) cade giù (terremoto) mentre se la pallina si trovava in fondo alla valle (zona non sismica), lì rimane. Dunque è necessario capire dove sia la zona sismica: ovvero una zona di instabilità potenziale a causa di piccole perturbazioni (uccellino).
Se un sismologo ci assicura oggi che “Atlantide non è zona sismica” e invece domani avviene un sisma devastante proprio in quella regione, è necessario che l’opinione pubblica pretenda di sapere perché non è stato capito qualcosa di fondamentale per la saluta pubblica e che chi ha fatto determinate affermazioni se ne assuma pubblicamente la responsabilità: questa situazione dovrebbe aprire un grande dibattito per rimettere in discussione i fondamentali della disciplina.
E’ proprio questo che non è accaduto in economia, e in particolare tra quegli economisti che si riconoscono nel neoliberismo. Lucas, pur essendo uno dei più influenti economisti dell’ultimo quarto di secolo e pur avendo sviluppato uno dei concetti chiave della dottrina neoliberista, aveva scritto il contrario di quello che a distanza di quattro anni sarebbe successo. Ovvero la peggior crisi economica dal 1929 a oggi, dovuta a una perturbazione (forse) non prevedibile (il fallimento della Lehman Brothers) che, però, si è verificata in una situazione di grande instabilità economica diffusa a causa del divario crescente nella distribuzione del reddito e di una tendenza abnorme verso l’indebitamento privato.
Notiamo che l’articolo del 2007 non è stato un fatto estemporaneo, ma mette in luce un problema strutturale dell’impianto teorico: già nel 2003 Lucas scrisse: “La mia tesi in questa conferenza è che la macroeconomia, nel suo senso originario, ha avuto successo: il suo problema centrale della prevenzione di depressioni è stato risolto, per tutti gli scopi pratici, ed è infatti stato risolto per molti decenni”. Va notato che Lucas è solo un dei tanti esempi di economisti appartenenti a quella scuola che hanno fatto dichiarazioni del genere: ricordiamo qui da noi delle uscite di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi (che, imperturbabili, continuano tranquillamente a spiegarci quasi tutti i giorni cosa fare per uscire dalla crisi).
Come ho avuto di modo di notare, un ripensamento delle fondamenta del campo – proprio in ragione dell’incapacità della dottrina neo-liberista di fornire gli strumenti per comprendere in tempo il verificarsi della più grave crisi economica dal dopoguerra e dunque della probabile incapacità di trovare la via per uscirne – è stata invocato a gran voce da tanti economisti. Ad esempio, l’economista inglese Grazia Ietto, nel presentare una nuova associazione di economisti, la World Economics Association, ha scritto: “L’arroganza sta dalle parti di quelli che credono che avevano e hanno ragione a propagandare il modello neoclassico e neoliberista d’economia malgrado la crisi… C’è rabbia invece tra i molti che non hanno mai aderito al modello neoclassico e neoliberista, compresi i pochi che avevano previsto la crisi sulla base di teorie e modelli alternativi. La loro voce non è stata ascoltata…”
A questo punto, entrando in “conflitto d’interessi”, mi sembra necessario ricordare che mio padre aveva correttamente diagnosticato l’avvicinarsi di una situazione di crisi simile a quella del 1929 scrivendo nel 2003 un articolo che cominciava con queste parole: “Da almeno due anni ho notato alcune rassomiglianze fra la situazione che si era determinata in America negli anni Venti del secolo scorso, un periodo che sboccò nella più grave depressione nella storia del capitalismo, e la situazione che si va delineando oggi in America”.
Recentemente l’associazione a lui dedicata ha promosso il Manifesto per la libertà del pensiero economico con questa motivazione: “Oggi entrano in crisi le teorie economiche dominanti e il fondamentalismo liberista che da esse traeva legittimazione e vigore… Esse hanno anzi partecipato alla edificazione di quel regime, favorendo la finanziarizzazione dell’economia, la liberalizzazione dei mercati finanziari, il deterioramento delle tutele e delle condizioni di lavoro, un drastico peggioramento nella distribuzione dei redditi e l’aggravarsi dei problemi di domanda. In tal modo esse hanno contribuito a determinare le condizioni della crisi”.
Per finire, prima di tentare di misurare il contributo di ciascuno al benessere globale, bisogna ricordare che Adam Smith, il padre dell’economia moderna, scrisse: “Che altro deve desiderare un uomo che non ha debiti, che ha quello che basta per vivere decorosamente e che ha buona salute? Nient’altro. Qualunque volontà di ottenere di più non è che il frutto di frivoli desideri.” Mi sembra molto in linea con una battuta che illustra bene la psicologia di uno scienziato e la sua intrinseca incapacità di contribuire alla propria ricchezza materiale personale (e dunque globale?): “Per farti dare dei soldi da uno scienziato chiedigli in cosa consiste il suo lavoro”. Forse la ricchezza si può misurare anche in un altro modo che contando i soldini.