C’è qualcosa di familiare e rassicurante nelle dichiarazioni seguite ai risultati delle prime elezioni libere nate dalla Primavera araba, quelle della Tunisia. Nello stesso tempo, c’è qualcosa che interroga il senso della democrazia per come viene percepito in Occidente e soprattutto in Europa.
Il fatto è ormai noto: An-Nahda (la rinascita), il partito di ispirazione islamica, ha vinto le elezioni a Tunisi, con poco meno del 40 per cento dei voti, tradotti in 90 deputati su 217 nel nuovo parlamento che avrà il compito di completare la transizione seguita alla caduta del regime di Zine el Abidine Ben Alì, scegliere un governo provvisorio e scrivere la nuova Costituzione nazionale, prima di indire nuove elezioni presidenziali e parlamentari. I dati ufficiali dell’Isie, la commissione indipendente che ha monitorato il processo elettorale, non sono ancora stati resi noti, ma sia dal quartiere generale del partito islamico, nel sobborgo di Montplaisir a Tunisi, sia da quelli degli altri partiti, i risultati sono considerati definitivi. Il secondo posto è conteso tra due formazioni laiche, Ettakol e il Partito del congresso per la Repubblica, mentre il Partito democratico del popolo (formazione di centro-sinistra) ha annunciato che starà all’opposizione. Secondo i dati dell’Isie, il 90 per cento dei poco più di 4 milioni di tunisini con diritto di voto si è registrato per partecipare a questo evento storico. E già questo è un dato importante: la Rivoluzione dei gelsomini è stata innanzi tutto una rivolta per avere la possibilità di scegliere da chi essere governati, come vivere e anche come pregare.
La vittoria di An-Nahda non è del tutto a sorpresa. Anzi, secondo alcune proiezioni, il partito islamista avrebbe potuto arrivare anche al 50 per cento dei voti e dunque alla maggioranza nell’assemblea parlamentare, ipotecando così il futuro della nuova Tunisia. Abdelhamid Jlassi, che per An-Nahda ha coordinato la campagna elettorale, ha subito cercato di spegnere ogni timore: “Voglio assicurare innanzi tutto i nostri partner economici e commerciali e tutti gli investitori – ha detto commentando il voto – Speriamo di avere molto presto le condizioni per poter investire in Tunisia. Le priorità per il nostro paese sono chiare: stabilità, condizioni di vita dignitose e costruzione delle istituzioni democratiche. Siamo pronti a lavorare con chiunque si riconosca in questi obiettivi”.
An-Nahda ha una certa tradizione di collaborazione con le altre forze di opposizione a Ben Alì, specialmente nella dissidenza che negli anni ha scelto la via dell’esilio politico. E al contrario di altri partiti islamisti non ha mai sposato la violenza politica, e i suoi dirigenti hanno spesso pagato a caro prezzo il proprio impegno politico. Basta questo a spiegare il successo elettorale di una forza che, applicando lenti europee, potrebbe essere considerata conservatrice? No, perché altre forze politiche tunisine hanno subito altrettanto se non di più la repressione del regime. In più c’è di sicuro che An-Nahda si è presentato come il più organizzato tra i partiti tunisini, anche grazie all’appoggio finanziario arrivato dall’estero. Ma c’è anche il fatto che in Tunisia il regime ha trasformato la laicità in un obbligo e in un biglietto da visita con cui accreditarsi presso i propri sostenitori esteri, ben disposti a concentrarsi sulla grande libertà individuale delle donne tunisine rispetto ad altri paesi arabi, chiudendo un occhio sull’assenza di libertà di stampa, di pensiero, di attività sindacale, di stampa, di espressione. Infine, nel voto agli islamici moderati c’è anche il desiderio di una maggiore pulizia nella vita politica del Paese, segnata dalla corruzione e dalle ruberie della cerchia vicina ai Ben Alì. È una miscela che, con ingredienti parzialmente diversi e più complessi, si ritrova anche in altri paesi, a partire dall’Egitto.
Il primo banco di prova dei vincitori delle elezioni di Tunisi sarà la formazione di un governo, necessariamente di coalizione con forze laiche, in cui iniziare a tradurre in pratica, cioè in norme, un progetto politico che guarda tanto all’Akp del presidente Erdogan in Turchia quanto a esperienze politiche europee di partiti democratici ma con una matrice religiosa. Per l’Europa, e l’Italia innanzi tutto, data la prossimità geografica e gli interessi economici, il banco di prova sarà scoprirsi capace di rispettare la scelta dei cittadini tunisini e accettare di aprire un dialogo anche con i partiti di ispirazione musulmana che hanno scelto la democrazia. Senza dimenticare che i democratici governi europei, di ogni colore, hanno ricevuto con tutti gli onori i dittatori di Tunisi, Tripoli e del Cairo. È anche per questo, per il sostegno occidentale a regimi sanguinari, che oggi a Tunisi e al Cairo forse domani nell’urna molti hanno scelto l’Islam.
di Joseph Zarlingo