“I contratti para-subordinati sono spesso utilizzati per lavoratori formalmente qualificati come indipendenti, ma sostanzialmente impiegati in una posizione di lavoro subordinato”.

Indovinate da dove ho preso questa frase? Vi arrendete? Dalla ridicola lettera del governo all’Unione Europea, proprio vicino alle promesse sui licenziamenti facili e nel paragrafo dall’assurdo titolo “Efficientamento del mercato del lavoro”. Firma in calce: “Un forte abbraccio, Silvio”.

Vuoi dire che Silvio si è accorto di quello che è successo il 15 ottobre? Finora si è parlato solo delle violenze. Eppure è chiaro che le macchine in fiamme in mezzo a un corteo e i blindati delle forze dell’ordine che attraversano a tutta velocità la piazza affollata non sono idee brillanti: casomai sono pericolose. Per capirlo non occorrono fiumi di inchiostro e ore di dibattiti televisivi più interessati a cavalcare l’onda emotiva degli eventi che a guardare con lucidità a una giornata complessa come quella di Roma.

Il dato significativo è un altro: in corteo c’erano 200 mila persone, non una, ma più generazioni devastate dalla precarietà ben prima che dalla crisi. Persino Silvio ora dice che la precarietà serve a mascherare la perdita di diritti dei lavoratori. Eppure partiti e sindacati non sembrano in grado di rispondere a questi problemi. Anzi, spesso i responsabili sono proprio loro, laudatori impenitenti della flessibilità.

Proviamo a tracciare un quadro dei lavoratori al tempo della precarietà:

1. quando riescono a lavorare non hanno ferie, malattia, maternità, pensione. Sono soggetti a 42 diverse tipologie di contratti atipici: un caos che serve solo a dividere e confondere i lavoratori;

2. guadagnano meno dei loro colleghi tutelati, anche se svolgono le stesse mansioni: questo vale per i medici a partita Iva negli ospedali, operai edili, tessili e telefoniste, badanti e cassiere, professori, redattori e ricercatrici precarie;

3. tra un contratto atipico  e l’altro non percepiscono un reddito e con la crisi si indebitano per vivere e rischiano di trovarsi in casa Equitalia et similia pronte a pignorarli.

Bene, a Roma migliaia di persone hanno cercato di portare all’attenzione del paese questi problemi. Non idee fantascientifiche, ma proposte concrete: riduzione delle tipologie contrattuali e nuovo welfare con diritti slegati dal contratto di lavoro, salario orario minimo, reddito di base incondizionato, diritto all’insolvenza (cioè a non pagare i debiti quando non si percepisce un reddito adeguato).

Sono proposte che fanno meno audience delle auto in fiamme o della fantomatica caccia al black bloc, ma dovrebbero entrare – subito – nell’agenda politica, e non c’è bisogno dell’abbraccio mortale di Silvio per capirlo.

Le obiezioni più banali le conosciamo: in Italia il mercato del lavoro è rigido (falso, è più flessibile che in Germania, ma la flessibilità “all’italiana” non è mai dalla parte dei lavoratori); salario minimo e reddito garantito uccidono la meritocrazia (ma quello attuale non è certo un sistema meritocratico, del resto con certi ministri che ci ritroviamo parlare di meritocrazia pare una barzelletta); il diritto all’insolvenza è utopico, non è possibile contrarre debiti e non pagarli (ma quante banche sono state salvate dagli interventi statali?).

Non possiamo più pagare per gli organismi finanziari parassitari che vogliono imporre gli interessi dell’1% al 99% delle persone: questo era il messaggio del 15 ottobre 2011 nel mondo, e da qui dovremmo ripartire per superare la rabbia cieca di piazza e portare proposte che possano migliorare le vite di noi precari e precarie.

Tra la borsa e la vita, deve vincere la vita.

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