Come uomo ho guardato spesso le cose accadere, fino al punto di sentirmi al sicuro in questo ruolo da spettatore, aspirante comparsa, voce tra il coro, mai solista. Oggi ho due figli maschi, ma ho più fiducia nella sensibilità femminile, che questa possa migliorare tutto e noi compresi, dare ai miei figli, maschi, un esempio da seguire, capace di limarne i muscoli della natura dominante e addolcirne la sostanza. Resta mia convinzione la distanza che separa noi a loro, uomini e donne, il vuoto che noi uomini alimentiamo e il coraggio con cui le donne lo colmano quando la battaglia infuria sulla pelle della famiglia, quando è la donna che non si volta altrove perché sceglie di affrontare i fatti.
Eppure ci deve essere un modo per riscattare noi che siamo uomini, mariti, amanti dalla volontà in fuga, troppo spesso capaci a non disfare le valige della responsabilità, per abbandonare presto quel dovere di esserci, scaricato ovunque su spalle meno larghe ma dal cuore forte, che le nostre braccia di maschi non sarebbero altrettanto potenti a sostenere. Spesso mi rifletto negli occhi di troppe madri, nei giudizi indifferenti che hanno padri di fretta e mi ricordano che io sono parte di una categoria quasi sempre indifendibile: categoria di padre.
Eppure ci dev’essere un modo, quel modello cui ispirandosi non si avrebbe che a rinascerne migliori. C’è.
Sia lode ora a donne di coraggio, donne che ad averne di uomini come loro, capaci ad esser forti anche senza noi, che sono e saranno faro e roccia nel bisogno. Sia lode allora a donne come Gina Codovilli, a lei e donne quanto lei, capaci di esser madri, mogli, donne, ma più di tutto coraggio.
Osare vivere, là dove altri, specialmente uomini, avrebbero alimentato inderogabili priorità per assecondare la paura di guardarla in faccia: la vita che non rispetta le regole del gioco.
Gina Codovilli mi è dato conoscerla dal suo libro e se non mi sbaglio… una persona si conosce sempre meglio da ciò che ha scritto. Di lei conosco Andrea, il figlio autistico: l’ho letto nascere, crescere, l’ho letto fin quasi ai giorni nostri, fin dove il racconto di Gina si interrompe, là dove il mio cuore di uomo e di padre affanna, fiato corto, polmoni spompati dal passo di tanta madre che dal primo istante della vita del figlio lotta armata d’amore, affinché la crisalide dell’autismo liberi la farfalla in Andrea e gli permetta se non il volo quantomeno spalancare le ali su cui sentire il vento.
“Il mio principe“, diario che cavalca oltre vent’anni di vita, è il SUO principe, quella figlia promessa da un’amniocentesi e non mantenuta da un errore quanto mai insolito di laboratorio. Nasce Andrea, terzo di tre figli, affetto da questa assenza apparente che lo imprigiona a un mondo parallelo, comunicante all’inizio con quello della madre, Gina, per frammenti: il tempo di attraversarla con lo sguardo e fissare oltre. Ma Gina trasforma la caduta libera della malattia in un tuffo nel profondo silenzio del figlio e quando riemerge non solo riprende a respirare, ma a costruire il ponte dei due mondi, tra lei e Andrea, cominciando a sgretolare quel muro che separa lui a tutti e a tutti mostra che una chiave esiste, se non per aprire almeno per socchiudere la porta dell’isolamento.
Sia lode a Gina e a queste madri, audaci a precipitarsi anche nel buio per riaffiorare con un barlume di fiamma che sarà fuoco da proteggere, alimentare e difendere da poggia di chi si commuove e resta immobile come spesso solo gli uomini sanno fare. Sia lode dunque a donne di coraggio, che l’amore è tutto ma non basta: ci vuol talento.