L’Italia è tra i paesi con più alta diseguaglianza, insieme con il Regno Unito e gli Stati Uniti. I paesi a maggiore eguaglianza invece sono quelli Scandinavi, mentre l’Europa continentale si colloca nel mezzo.
In una prospettiva di medio termine si osservano degli andamenti comuni tra le varie aree: negli anni ‘70-‘80 la diseguaglianza è rimasta stabile quasi ovunque, mentre invece è aumentata nel decennio ’90. Regno Unito e Stati Uniti sono delle eccezioni perché hanno sperimentato un aumento delle diseguaglianze in ambedue i periodi .
L’aumento della diseguaglianza negli Stati Uniti può essere spiegata da una serie di fattori: aumento delle differenze salariali tra i lavoratori a più elevata istruzione e lavoratori manuali; aumento in generale del rendimento dell’istruzione. Si è soprattutto avuto un impoverimento dei lavoratori meno qualificati (unskilled): il salario reale di questi lavoratori è diminuito negli anni ‘90 rispetto agli anni ’70.
L’avvento di tecnologie digitali ha spiazzato questo tipo di lavoro non qualificato, ma anche il commercio con i paesi a più basso costo di lavoro (Cina, India etc.) ha spinto verso la delocalizzazione di lavorazioni a maggiore contenuto di lavoro unskilled. Si è creata negli Stati Uniti una vera classe di lavoratori poveri (working poors): persone che guadagnano uno salario insufficiente per vivere decentemente.
I dati sull’Italia sono quelli delle indagini della Banca d’Italia. La diseguaglianza del reddito in Italia ha registrato un andamento ad U: in diminuzione dalla metà degli anni ’70 fino alla fine degli anni ’80; in aumento negli anni ‘90, con un andamento stazionario dai primi anni 2000 in poi.
La diffusione di forme contrattuali flessibili, la concorrenza dei paesi emergenti, e la bassissima dinamica della produttività hanno probabilmente spinto verso l’aumento della diseguaglianza negli anni ’90. Si stima che circa il 15-20% dei lavoratori italiani è working poor, hanno cioè un salario che è inferiore di due terzi rispetto al salario mediano.
Le spiegazioni generali della maggiore diseguaglianza sono quelle che abbiamo descritto per gli Stati Uniti: progresso tecnologico che premia i lavoratori più istruiti; commercio internazionale che spinge verso la delocalizzazione dai paesi ricchi a quelli poveri delle lavorazioni a maggiore intensità di lavoro meno qualificato; maggiore flessibilità dei mercati del lavoro; politiche pubbliche meno generose per i poveri.
Per l’Italia la prima spiegazione non è rilevante. Il premio all’istruzione in Italia è molto basso. I laureati guadagnano poco di più dei diplomati e così via.
Sull’Italia ci fornisce utili analisi Stefano Perri:
- La quota del reddito nazionale che va al lavoro è in Italia tra le più basse nei paesi Ocse.
- La diminuzione della quota dei redditi da lavoro dipende in misura maggioritaria dalla negativa evoluzione del salario reale (diminuito del 16% tra il 1988 e il 2006).
- Se confrontiamo i redditi mediani, quelli del decile più povero e quelli del decile più ricco della popolazione, emerge in modo drammatico la gravità della situazione italiana. Mentre sia per il reddito mediano sia per il reddito del 10% più povero l’Italia è l’ultima tra i paesi considerati, e ha redditi minori rispetto alla media Ocse, il reddito del 10% più ricco risulta più alto rispetto alla media Ocse, e anche rispetto alla Francia. Si tratta di un dato che mostra in modo inconfutabile lo squilibrio che il nostro paese vive, con conseguenze molto rilevanti sia sul piano sociale che economico.
Siamo un paese molto ineguale. Abbiamo poveri che sono (relativamente) più poveri di quelli di altri paesi e ricchi che sono più ricchi (relativamente) rispetto ad altri paesi.
La mobilità sociale è molto bassa: la probabilità di cambiare classe sociale è modesta e i percorsi di carriera (per la stessa generazione) sono lenti.
Da questa breve fotografia bisogna partire per ragionare su quali misure prendere per tornare a crescere. Non bastano le ricette che ci suggerisce la lettera della Bce. Bisogna agire sulla diseguaglianza. Ci torneremo su.