Per la prima volta il Kyrgyzstan andrà al voto senza conoscere già il risultato. Oggi infatti si celebrano le elezioni presidenziali per trovare un successore a Bakiev, dimessosi dopo le violenze del giugno 2010. E’ la quarta volta dal 1991 che la popolazione della seconda più piccola repubblica centro asiatica va alle urne, ma per la prima volta appunto, senza che il risultato sia già noto.
Sedici candidati – in origine erano 86 a testimonianza delle divisioni esistenti nella società – tra cui spiccano il socialdemocratico Almazbek Atambáyev, ex primo ministro e fautore di una politica filorussa, e Kamchybek Tashíev, ex pugile, sostenitore di un nazionalismo estremo. Quest’ultimo sarebbe anche l’istigatore degli scontri etnici con la minoranza uzbeka del giugno 2010, conclusi con circa 500 vittime, quasi 400.000 sfollati e l’istituzione di una repubblica parlamentare, votata con un referendum la scorsa primavera. Gli osservatori internazionali pensano che ci sarà bisogno di due turni per eleggere il presidente e sanno che un eventuale ballottaggio si risolverebbe in uno “scontro” tra Atambayev, appoggiato dalle province del nord e Tashiev, eventualmente sostenuto in un secondo turno dall’altro candidato Adaján Madumárov, espressione del sud islamista sconquassato dalle violenze e dalla difficile governabilità.
Il Kyrgyzstan, che occupa il 159esimo posto (su 178) nella classifica del 2010 sulla libertà di informazione stilata da Reporters Sans Frontiers ed è messo all’indice da Human Right Watch è, come le altre repubbliche centro asiatiche, al centro dei desideri delle superpotenze desiderose degli idrocarburi e delle altre risorse naturali custodite dal sottosuolo. Superpotenze disposte a chiudere gli occhi sulle violazioni dei diritti umani in cambio di un privilegiato rapporto commerciale. E se da un lato la Russia, non molto interessata ai diritti umani, rappresenta il principale partner commerciale ed industriale di Bishkek, cui eroga generosi finanziamenti annuali, il ricco sottosuolo kirgiko alimenta anche gli appetiti energetici di Pechino, a cui preme anche la sicurezza della frontiera, visti i quasi 1000 km che dividono il Kyrgyzstan dallo Xinjiang, regione autonoma cinese, a maggioranza islamica, le cui espressioni terroristiche indipendentiste e islamiste, hanno dato, per esempio in occasione delle ultime Olimpiadi, notevoli problemi a Pechino.
Gli Stati Uniti, arrendendosi davanti all’impossibilità di esercitare un egemonia nella zona e desiderosi di mantenere le proprie basi per le operazioni in suolo afgano, si preoccupano solo dell’evoluzione del terrorismo islamico nella zona e non manifestano particolari sintomi di ingerenza nelle questioni locali.
Qualunque sarà il governo che salirà dal voto dei tre milioni di elettori che si attendono alle urne, dovrà impugnare la riforma scaturita dall’ultimo referendum e guidare il passaggio a una repubblica parlamentare, evitando di cadere nella tentazione di instaurare un sultanato simile a quelli che reggono le sorti delle altre repubbliche centro asiatiche. Il nuovo governo dovrà operare profonde riforme strutturali a beneficio di un maggiore equilibrio tra i tanti frammenti della società kirgica, permettendo una diminuzione del rischio di nuove violenze, che già nel 2010 hanno spinto il Kyrgyzstan vicino a una guerra civile. Uno scenario che interesserebbe anche alcuni Stati vicini.
di Francescomaria Evangelisti