La popolazione mondiale ha raggiunto quota sette miliardi, la domanda dei paesi emergenti (in primis Brasile, Cina e India) cresce senza sosta e la produzione agricola planetaria diminuisce. Bastano pochi dati per rendersi conto della gravità della situazione. Eppure l’Italia, che di agricoltura ha sempre vissuto, pare far finta di niente.
“Certo non è un pericolo che riguarda l’immediato, ma se continueremo a perdere autosufficienza nella produzione di derrate alimentari non è escluso che tra qualche anno pane e pasta costeranno il doppio di quello che costano ora e, onestamente, temo che la cosa avrà conseguenze pericolose”. A parlare così è Domenico Pignone, direttore del Dipartimento agroalimentare del Cnr (Daa-Cnr). All’origine dei suoi timori ci sono essenzialmente due ragioni: il progressivo aumento di terre arabili destinate alla produzione di energia solare ed eolica e la debolezza strutturale della nostra politica agricola, a suo dire “eccessivamente polverizzata tra le diverse Regioni e pressoché incapace di esprimere una linea comune”. La denuncia viene lanciata a margine della conferenza “Food for all, tra etica e globalizzazione”, promossa a Roma dal Cnr in occasione della Giornata Alimentare Mondiale.
L’agricoltura rappresenta una delle eccellenze italiane, con un fatturato che vale il 25 per cento del Pil e con esportazioni in costante crescita del 5 per cento l’anno (primo Paese europeo), per un valore complessivo di circa 23 miliardi di euro. Questi dati vanno tuttavia letti in un contesto globale, che è tutt’altro che confortante. Il combinato disposto della volatilità dei costi dei beni alimentari e, d’altra parte, della crisi finanziaria ha posto infatti di nuovo l’agricoltura al centro dell’attenzione mondiale. Nel 2007-2008, sul mercato mondiale, si sono registrati rincari del 320% per il riso, del 250% per il mais e del 210% per il frumento.
Nel 2010 è arrivata una nuova improvvisa impennata. Ciò ha ridotto alla fame intere popolazioni e oltre 40 Paesi, molti dei quali travolti dalle proteste, si sono visti costretti a prendere misure straordinarie per calmierare i prezzi del settore primario. “Se non cominciamo a guardare seriamente a questi fenomeni – dice Pignone – presto potremmo trovarci anche noi nella stessa situazione”. Il fatto è che noi non siamo autosufficienti e, in un contesto internazionale del genere, certo non possiamo permetterci politiche che aggravino la nostra dipendenza dal mercato internazionale. Eppure stiamo pervicacemente andando in questa direzione.
Il primo problema è rappresentato dalla sottrazione di superfici arabili alla loro primaria destinazione per favorire la realizzazione di impianti eolici e fotovoltaici.
“Se finora la situazione è tollerabile, tra un decennio non lo sarà più e a quel punto la dipendenza nei confronti di alti Paesi farà sentire tutto il suo peso. Nessuno può allo stato attuale escludere che possa esservi un raddoppio dei prezzi di beni primari, a cominciare dalla pasta”. Oltre a essere poco lungimirante, la politica sembra essere anche strutturalmente debole.
In Italia, in questa materia, le Regioni hanno un’ampia autonomia, il che rende più difficile l’attuazione di una politica in grado di invertire la rotta. “In questo settore patiamo una politica frammentaria, che indebolisce un anello che potrebbe invece essere strategico per il bene non solo dell’Italia ma di tutti i Paesi della fascia Sud del Mediterraneo.”, spiega il capo del Daa-Cnr. “La Primavera araba e la rottura degli equilibri storici con – continua il ricercatore – potrebbero rappresentare l’occasione di un nuovo inizio anche in vista del coordinamento delle politiche connesse alla produzione agricola. Potremmo per esempio accordarci al fine di far aumentare le loro produzioni di frumento. Ne guadagneremmo entrambi in termini economici e commerciali. In più, noi ne trarremo vantaggio anche in termini sociali. Incentivare un aumento della capacità produttiva di questi Paesi significherebbe diminuire il flusso migratorio”. Insomma, oltre che parlare di agricoltura sostenibile, occorre dunque pensare all’agricoltura come strumento di sostenibilità politica e sociale.
di Cristian Fuschetto