Il luogo dove l'ex collaboratrice di giustizia Lea Garofalo è stata sciolta nell'acido a San Fruttuoso (Monza)

Sciogli tua moglie nell’acido? Lo Stato ti paga l’avvocato. Questa l’ultima beffa in ordine di tempo del processo a Carlo Cosco, l’affiliato alle famiglie di Petilia Policastro, accusato di aver ucciso e sciolto nell’acido la moglie Lea Garofalo, collaboratrice di giustizia sparita la notte tra il 24 e il 25 novembre del 2009. All’uomo infatti è stato concesso il gratuito patrocinio: la parcella di Daniele Sussman Steinberg, celebre penalista di Milano scelto da Cosco stesso, la pagherà lo Stato, perché nel 2010 l’uomo, di professione buttafuori, ha dichiarato meno di 10.628,16 euro di reddito.

Una circostanza singolare. Di solito erano gli stessi Cosco ad attivarsi per il pagamento delle spese legali dei loro accoliti. Nell’ordinanza di custodia cautelare il gip, Giuseppe Gennari, annota che “il mantenimento dei detenuti e il sostegno per le spese legali è un tipico servizio che viene fornito, dalle organizzazioni criminali, agli affiliati arrestati” e Massimo Sabatino – tra quelli che hanno sequestrato Lea Garofalo prima di consegnarla al marito – “ha goduto del sostegno economico dei Cosco” in un altro procedimento.

Contro la donna la ‘ndrangheta complottava da tempo. Lo ha confermato Angelo Salvatore Cortese, ex appartenente alla mafia calabrese e oggi pentito. La sua testimonianza è stata ascoltata in Corte d’assise a Milano all’ultima udienza del processo per l’omicidio della Garofalo e che vede imputati non solo il marito Carlo, ma anche gli altri due fratelli Cosco – Vito e Giuseppe – insieme ai loro fiancheggiatori, Massimo Sabatino e Carmine Venturino.

Cortese, che verso la fine del 2001, assieme a Carlo Cosco, passò un periodo di detenzione nel carcere di Siano a Catanzaro, racconta di essere stato il primo a sapere che l’uomo voleva eliminare la moglie. “Me la presentò come una questione di onore – riferisce Cortese – perché Lea Garofalo lo aveva abbandonato, portando con sé la figlia e preferendo un altro uomo, un tipo che non conoscevo, di Bergamo”.

Carlo Cosco si guardò bene dal riferire che in quegli stessi giorni sua moglie aveva cominciato a collaborare con la giustizia e a denunciare gli affari illeciti dei fratelli. Questi controllavano un pezzo di Milano, tra piazza Baiamonti, corso Como e via Montello 6 dove abitavano, occupando abusivamente una serie di appartamenti. Si dedicavano allo spaccio di droga, ma anche agli appalti pubblici, tant’è che Vito Cosco ha lavorato nei primi cantieri per la costruzione del metrò 5.

Ad ascoltare con interesse la deposizione in videoconferenza da località segreta il collaboratore di giustizia, è stato il diretto interessato Carlo Cosco. Cortese ha confermato che nell’onorata società non era tollerato il comportamento di Lea Garofalo, tanto più essendo lei la moglie di un personaggio vicino ai clan. Secondo Cortese, infatti, Carlo Cosco era affiliato alle famiglie di Petilia Policastro, un paese della provincia di Crotone. Un dettaglio che però il pubblico ministero Michele Tatangelo ha giudicato ininfluente. I Cosco, infatti, sono giudicati a Milano per aver commesso un efferato omicidio e non per essere componenti della ‘ndrangheta. Su di loro nemmeno pesa l’aggravante mafiosa, per cui tecnicamente non si può parlare di un processo alla criminalità organizzata.

Ma sulla vicenda di Lea Garofalo i racconti di Cortese gettano ora una luce inquietante. Secondo il pentito, da un certo momento in poi, sulla donna pesò il verdetto di due boss: Pasquale Nicoscia di Isola Capo Rizzuto e Domenico Megna di Paparice, anche loro nel 2001 rinchiusi nel carcere di Siano. Secondo Cortese i due giudicarono legittima la volontà del marito di uccidere la moglie, anche se in quel momento non potevano aiutarlo. Nei loro territori era in corso una guerra, che li contrapponeva alla famiglia degli Arena, sempre di Isola Capo Rizzuto, e la cosa naturalmente necessitava di ogni loro energia.

Cosco, in ogni modo, aveva bisogno dell’approvazione di qualche ‘mammasantissima’. Lea era sorella di Floriano Garofalo, personaggio di spicco della ‘ndrangheta di Petilia Policastro; se avesse agito da solo sarebbe esplosa l’ennesima faida. Cortese ha ricordato poi che secondo i principi della ‘ndrangheta, i capi famiglia non possono esimersi dal punire il comportamento sconveniente di un loro componente, se lo facessero ne risponderebbero loro direttamente.

Floriano Garofalo, forse per convincere la sorella a cambiare stile di vita o più realisticamente per chiederle di smettere di collaborare, cominciò a prendere informazioni sulla piccola Denise Cosco, la figlia di Lea, che ha testimoniato a Milano la scorsa udienza evidenziando che in quei giorni più volte si sentì a rischio.

Davanti ai giudici ha parlato poi il cugino di Floriano, Gennaro Garofalo, che nel 2004, durante il suo periodo di ferma nei carabinieri a Lissone, su mandato del boss, fece una ricerca nello Sdi, il registro segretissimo del ministero dell’interno, per cercare l’indirizzo cui era domiciliata Denise. Trovò un appartamento a Perugia, ma l’ex carabiniere ha giurato di non aver mai comunicato quel dato a Floriano Garofalo. Un altro episodio che dimostra come da tempo la ‘ndrangheta fosse sulle tracce di Lea e la giovane Denise.

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