Le borse hanno reagito male all’annunciata intenzione del primo ministro greco di sottoporre a referendum l’accordo raggiunto all’ultimo summit europeo. La scelta di tempo è quantomeno discutibile, ma Papandreou solleva un problema cruciale per il funzionamento dell’Unione Europea del futuro: se o meno le istituzioni europee, e le loro decisioni, debbano avere una diretta legittimazione democratica. L’alternativa è il rito dei vertici nel weekend. Un rito che sta mostrando la corda.
di Francesco Daveri*, Lavoce.info
Chissà se i trader che hanno fatto partire gli ordini di vendita dopo l’annuncio del primo ministro greco Papandreou di sottoporre a referendum l’accordo europeo del 26 ottobre avevano in mente le parole di Virgilio. “Timeo Danaos et dona ferentes”: diffido dei Greci anche se portano doni, diceva già Laocoonte nell’Eneide, cercando di convincere i suoi concittadini di Troia a non portare dentro le mura il famoso cavallo di legno ideato da Ulisse per porre fine all’assedio pluriennale della città. Se fin da allora c’era da dubitare dei loro doni, figuriamoci che cosa si dovrebbe pensare ora che i greci non portano certo regali, ma si fanno semplicemente cancellare una bella fetta di debito pubblico, un debito costruito negli anni, indebitandosi con gli Stati e le banche dell’Europa e del resto del mondo e nascondendo, anche grazie agli artifici imparati dalle banche di investimento, la reale entità dei loro disavanzi.
Papandreou non è un demagogo
Eppure George Papandreou non è Silvio Berlusconi: non è cioè un demagogo incapace di prendere decisioni impopolari. Anzi: di decisioni impopolari ne ha prese a bizzeffe negli ultimi due anni, in molte occasioni e senza fare tante storie, per fronteggiare un debito non accumulato dal suo governo. Il suo atteggiamento responsabile è stato ripagato con una sequenza interminabile di dissidi interni nel suo partito e con una crescente ed evidente insoddisfazione da parte di un elettorato che per ora ha dimostrato di non condividere, e forse proprio di non capire, la sua battaglia. Oggi, con la sua decisione di indire un referendum che approvi o rifiuti l’accordo europeo per la concessione di 130 miliardi di aiuti associati a 30mila licenziamenti nel pubblico impiego, tagli alle pensioni e riduzioni delle detrazioni fiscali, ha detto basta. Non vuole più essere rosolato a fuoco lento. Con il referendum, Papandreou chiede ai greci di esprimersi direttamente sulla loro appartenenza all’euro: di questo si tratta, e per questo i mercati hanno reagito tanto male. Se i greci rispondessero di no, direbbero con il loro voto che la misura è colma e che preferiscono ritornare alla dracma. In tal modo in un solo giorno tra dicembre 2011 e i primi mesi del 2012 rischiano di andare in fumo gli innumerevoli sforzi negoziali di questi mesi per arrivare a un default ordinato della Grecia.
Non c’è dubbio che la scelta del momento sia quanto meno discutibile, se non proprio infelice. Indire un referendum su un accordo appena firmato significa metterne in dubbio subito la validità e quindi significa anche minare la fiducia dei mercati nella volontà di attuazione di quell’accordo da parte del governo che lo ha firmato. Eppure, con la sua decisione, Papandreou porta con sé due doni che potrebbero almeno farci riflettere.
Gli interessi del direttorio e di Papandreou
Il primo ministro greco ci ricorda innanzitutto che la politica esiste dovunque, ad Atene come a Parigi e a Berlino. Durante le conferenze stampa congiunte, il direttorio Merkozy impersona gli interessi supremi dell’Unione. Ma la parte francese del direttorio (Sarkozy) si preoccupa soprattutto dell’esposizione delle banche francesi nei confronti della Grecia e dell’implicito aumento di deficit pubblico – con possibile declassamento – che si avrebbe se il governo francese dovesse accollarsene il salvataggio dopo il default greco. Mentre la signora Merkel vede evaporare il consenso politico per il suo attuale alleato (i liberaldemocratici) ed è quindi impegnata a costruirsi la futura maggioranza di Grosse Koalition, dando un colpo al cerchio, cioè tenendo la Grecia e l’Italia sotto scacco, e un colpo alla botte, con la proposta di re-introduzione del salario minimo che tanto sta facendo arrabbiare gli imprenditori tedeschi.
Papandreou in definitiva fa lo stesso: pensa all’Europa, ma anche al suo paese e al futuro del suo partito. Pensa che con lo sconto ottenuto (la cancellazione del 50 per cento dei debiti con le banche) la Grecia non va da nessuna parte: se le cose vanno bene, nel 2020 il debito pubblico greco sarà ancora il 120 per cento del Pil. Quindi se vuole garantire un futuro al suo paese (e a se stesso come politico) deve riuscire ad ottenere dal G20 uno sconto ben maggiore. E infatti c’è chi – ad esempio il capo economista di Citigroup, Willem Buiter – parla esplicitamente del fatto che “alla fine tutti i creditori della Grecia – pubblici e privati, tranne probabilmente il Fondo monetario – dovranno cancellare la maggior parte dei loro debiti”.
La democrazia ha le sue leggi di funzionamento, contro cui un direttorio – autonominato e interessato un po’ anche alla sua bottega – ha poteri per ora limitati dai trattati internazionali. I trattati europei non prevedono l’espulsione di un paese, ma solo la sua uscita con decisione unilaterale.
L’altro dono di Papandreou
Il greco Papandreou ha però in serbo un secondo dono. Con il suo referendum, solleva infatti un problema di fondamentale importanza per il funzionamento dell’Unione europea del futuro: se o meno le grandi decisioni europee debbano avere una diretta legittimazione democratica e popolare. Finora si è seguita una strada differente. Più o meno dalla creazione del Mercato comune europeo fino ad ora, nella maggior parte dei casi, si è usato il metodo intergovernativo, cioè gli accordi tra i capi di governo, spesso con il direttorio franco-tedesco che tirava il carro, e ratifiche successive dei cambiamenti più importanti da parte dei Parlamenti nazionali. Papandreou, con il suo referendum, sta chiedendo se il metodo intergovernativo continua a essere adeguato a guidare il funzionamento di un’Unione eterogenea, che in comune non ha più solo i mercati, ma anche una moneta, almeno per una parte rilevante di essa, e che si sta ponendo il problema di mettere in comune le politiche sociali e fiscali. E che in più prevede di aprirsi ulteriormente a Est, fino alla Turchia.
Il primo ministro greco ha oggi ragioni egoistiche e di bottega per porre il problema. Nel referendum, poi, voteranno solo le generazioni di oggi e non quelle di domani. Ma siamo sicuri di poter rinviare eternamente al futuro la risposta alla domanda: può l’Unione europea continuare a funzionare come ha fatto fino a oggi?
* Francesco Daveri è professore ordinario di Politica Economica presso l’Università di Parma. Insegna anche nel programma MBA della Scuola di Direzione Aziendale dell’Università Bocconi. Ha collaborato con la Banca Mondiale, il Ministero dell’Economia e la Commissione Europea. Scrive sul Sole 24 Ore ed è membro del Comitato di redazione de LaVoce.info.
La sua attività di ricerca riguarda soprattutto la relazione tra innovazione, produttività e crescita. Oltre a numerosi articoli su riviste internazionali e italiane, ha scritto Centomila punture di spillo con Carlo De Benedetti e Federico Rampini (Mondadori, 2008), e Innovazione cercasi (Laterza, 2006).