di Luigi Prestinenza Puglisi
La mostra People and the City, ideata da Jean Claude Mosconi e curata da Walter Guadagnini in collaborazione con Bärbel Kopplin e Alexander Balashov, è uno sguardo di insieme sulle città contemporanee e sulle persone che le abitano. Esposti dipinti e fotografie di artisti tra loro diversi e che coprono tutto il novecento: da Giorgio Morandi a Henri Cartier-Bresson, da Oskar Kokoschka a Gabriele Basilico, da Giorgio de Chirico a Olivo Barbieri. Il risultato è una abile e riuscita miscellanea, ospitata dal 21 ottobre al 4 dicembre al centro Winzavod per l’arte contemporanea di Mosca, che racconta, attraverso le opere della collezione Unicredit, quanto l’habitat urbano contemporaneo sia diverso da quello che le olografie correnti ci hanno rappresentato e ci rappresentano. Non il regno del Mulino Bianco ma una sommatoria di spazi che, messi insieme, non fanno unità ma forse neanche senso.
Tre opere sembrano le più emblematiche. La prima è la fotografia scattata da Jordi Colomer a una donna che da un altipiano di una zona desertica guarda un agglomerato urbano in tutta la sua informe e catastrofica espansione. Quasi a dare il senso della disparità tra la statura umana e la dismisura urbana. La seconda è lo scatto di Florian Böhm a un passaggio pedonale a New York dove persone di diverse razze e condizione sociale, in attesa del verde del semaforo, sembrano più atleti sul punto di partire ciascuno per una propria gara che abitanti di uno spazio condiviso. La terza sono due scatti dall’alto di Atene ed Amsterdam fatti da Vincenzo Castella posti uno vicino all’altro in una sorta di ideale confronto. Nonostante la prima sia una città nota per il suo disordine edilizio e la seconda per la sua efficiente pianificazione spaziale, nulla sembra distinguerle: ambedue appaiono come alveari di cemento senza speranza.
Come capita con tutte le opere che puntano ad esprimere il disagio urbano, gli artisti si trovano davanti ad una contraddizione che deriva dall’esprimere una condizione antiestetica in termini estetici. Contraddizione che se i pittori riescono ad ovviare, se non altro perché abituati da sempre, e comunque almeno sin dal realismo ottocentesco, a fare i conti con il problema, non lo stesso si può dire di tutti i fotografi le cui immagini costituiscono la parte più consistente di People and the City. Da qui il compiacimento nelle inquadrature, nella scelta delle luci, nell’opzione a volte retorica per un troppo estetizzante bianco e nero o monocromatismo come nelle opere di Barbara Klemm, Gianni Berengo Gardin o Boris Mikhailov.
Quale è la lezione che si può trarre dalle circa settanta opere in mostra? Che oramai irreversibilmente la città ha preso il posto della natura. Nelle megalopoli e nelle metropoli vive la maggior parte della popolazione mondiale, ed è lì che volenti o nolenti si gioca il futuro della nostra civiltà. Prova ne sia che anche chi perora risparmi energetici, verde, consumo di prodotti locali, orti e slow life lo fa all’interno di modelli di riferimento urbani.
Percorrendo la mostra, eccellentemente allestita da giovani architetti russi di Tema Agency, si sentono le mote della canzone di Renato Carosone: tu vuoi fa’ l’americano. Poco distante risuonano i rumori di telefoni e di traffico di un’altra installazione. Polifonia stridente di un habitat che forse non ci piace ma con il quale dobbiamo rassegnarci a fare i conti.