Sentito a Roma l'imprenditore Giancarlo Marocchino che per primo intervenne sul luogo del duplice omicidio. Secondo la sua testimonianza quello non fu certo un incidente
C’è una costante negli omicidi ancora avvolti dai misteri – e dai segreti di Stato – che torna ogni volta qualcuno cerca di arrivare a un pezzo di verità. Le vittime vengono uccise due volte: prima fisicamente, poi costruendo con sapienza i depistaggi, magari imputando al caso la morte. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin persero la vita in un agguato il 20 marzo del 1994 a Mogadiscio, quando stavano per inviare in Italia un servizio girato qualche ora prima nella Somalia del nord, a Bosaso. Immagini che nessuno ha mai potuto vedere, notizie che qualcuno ha voluto bloccare. Un omicidio avvenuto una settimana prima del cambiamento epocale della politica italiana.
L’unico imputato condannato per quell’agguato è probabilmente una semplice vittima sacrificale, un capro espiatorio offerto alla famiglia, che ancora oggi si batte per capire perché Ilaria e Miran sono stati uccisi. Hashi Omar Assan è detenuto da quasi un decennio, condannato per omicidio grazie alla testimonianza di un somalo, Alì Rage Ahmed, detto Gelle, che nel 2002 confessò a un giornalista di aver mentito, su indicazione di una “autorità italiana”. Gelle – dopo aver deposto esclusivamente davanti alla Digos di Roma – sparì, partendo per la Germania. Le ultime informazioni raccolte dall’Interpol lo danno a Londra, dove avrebbe chiesto e ottenuto asilo politico.
Da qualche mese il Tribunale di Roma lo sta processando per calunnia nei confronti di Hashi Omar Assan, che si è sempre dichiarato innocente. La sua eventuale condanna riaprirebbe di fatto l’inchiesta sull’omicidio Alpi Hrovatin, che, d’altra parte, non ha mai individuato gli organizzatori e i mandanti dell’agguato del 1994.
Ieri davanti alla seconda sezione penale del Tribunale di Roma ha deposto Giancarlo Marocchino, senza dubbio il testimone chiave della vicenda. Imprenditore originario di Borgosesia, Marocchino ha passato buona parte della sua vita occupandosi di tutto in Somalia, con una particolare predilezione per la logistica. Quando c’era da organizzare un trasporto, quando serviva qualcuno in grado di avere i contatti giusti con i signori della guerra, questo trasportatore del nord Italia era presente. La vicenda Alpi Marocchino la conosce bene: fu lui a soccorrere per primo la giornalista e l’operatore del Tg 3 pochi minuti dopo l’agguato. Indimenticabili sono le sue parole pronunciate davanti alle telecamere della televisione svizzera, che riuscì a riprendere la scena: “Queste sono le cose che avevano – spiegò mostrando gli oggetti di Ilaria Alpi, tenendo tra le mani uno dei bloc notes – e allora, non è stata una rapina, si vede che sono andati in posti dove non dovevano. Io penso che c’è una spiegazione”. La domanda del giornalista, nel video, lo incalza: “Politica?” – “Non saprei”, risponde. “O è solo una questione di… Così, tanto per fare vedere che si creano… Un incidente?”, chiede il giornalista. Marocchino non lascia terminare la domanda: “No, no, è stato un agguato bello e buono” – “Quindi premeditato?” – “Si, senz’altro”.
Un agguato, premeditato, che doveva far tacere una giornalista e un cameramen arrivati dove nessuno dove mettere il naso. Dunque Giancarlo Marocchino sapeva cosa era accaduto. La sua voce ferma, il suo sguardo che non temeva la telecamera sono dettagli rivelatori.
Davanti ai magistrati del Tribunale di Roma l’imprenditore ha ribaltato completamente quel suo ricordo: “Dovevano essere rapinati o sequestrati”, ha dichiarato nel corso della sua testimonianza. Già davanti alla commissione d’inchiesta presieduta da Carlo Taormina Marocchino aveva sostenuto questa seconda tesi, rinnegando le parole pronunciate subito dopo l’agguato. Ieri – a supporto della sua testimonianza – ha citato il racconto che avrebbe raccolto da un conoscente di uno dei suoi uomini di scorta a Mogadiscio: “Questo uomo, alto e magro – ha ricordato Marocchino -, mi disse che gli aggressori, una decina circa, prima di tagliare la strada alla Toyota dei due italiani, non sapevano se fare una rapina o compiere un sequestro di persona. In ogni caso, il gruppo non pensava che a fare fuoco fossero prima quelli dell’auto della Alpi. Io non conosco il nome di questo uomo e, anche se lo sapessi, non lo direi”.
di Andrea Palladino