Peggio di così l’attesissimo vertice di Cannes non poteva iniziare. Fino a qualche giorno fa, Francia e Germania speravano di potersi presentare al resto del mondo in qualità di leader di un continente unito, forte e determinato. Ma sono bastati pochi giorni per capire che la realtà sarebbe stata completamente diversa.
Due, oggi, le sostanziali novità. La prima è che l’Italia, ancora una volta, ha scelto di non decidere. La montagna presentata con orgoglio da Berlusconi a Bruxelles, come qualcuno già immaginava, ha partorito il classico topolino: un generico piano di dismissione del patrimonio pubblico da un lato, qualche iniziativa ancora poco chiara di rilancio della crescita dall’altro. I mercati hanno da subito reagito male anche se forse, ma questo non assolve certo l’Italia, il vero motivo è un altro. E qui veniamo alla seconda novità, quella che riguarda la Grecia, manco a dirlo. Il Paese, si inizia a capire con chiarezza, viaggia verso il default. No, non l’haircut, il taglio volontario dei premi sui titoli e la ristrutturazione controllata. Proprio il collasso effettivo, la bancarotta senza eccezioni, l’Argentina del 2001, per intenderci.
Angela Merkel ha perso decisamente le staffe. “Questo referendum – ha dichiarato – ruota attorno a una sola vera domanda: la Grecia ha intenzione di restare nell’euro?”. Il concetto è chiarissimo. I greci hanno il diritto di consultare i cittadini, in fondo siamo pur sempre in democrazia, ma non possono pretendere di coinvolgere con la loro decisione l’intera Europa. Ergo, se la Grecia dovesse respingere il piano di salvataggio – haircut del 50%, 130 miliardi di aiuti e proseguimento del programma di austerity – non beccherebbe più un centesimo dai contribuenti dell’eurozona (Sarkozy dixit). La tranche da 8 miliardi in partenza in questi giorni è già stata congelata a scanso di equivoci ma come detto potrebbe essere solo l’inizio. Ed è perfettamente ovvio che in assenza di un sostegno esterno il default selettivo si trasformerebbe in fallimento totale. E per Atene, a quel punto, non sarebbe più materialmente possibile continuare a far parte del club della moneta unica.
A complicare la situazione c’è poi il personalismo del premier Papandreou, che con la sua iniziativa referendaria ha messo in difficoltà persino il suo stesso governo. Il ministro delle finanze ellenico Evangelos Venizelos, cui tocca il tremendo onere di presentarsi a Cannes, prova a gettare acqua sul fuoco. “La posizione della Grecia nell’area euro – ha dichiarato – è una conquista storica del Paese e non può essere messa in dubbio da un referendum”. Belle parole, certo. Che però non convincono nessuno.
Comunque vada a finire, esiste già una certezza: il problema greco non riguarda più solo l’Europa dal momento che attorno ad esso si muovono ormai troppe variabili. Prendiamo il mercato dei derivati e il suo segmento dei credit default swaps, le polizze assicurative stipulate dai creditori di Atene per proteggersi dal rischio di un’insolvenza ellenica. I dati non sono noti ma c’è da giurare che le banche europee ne siano piene. A vendergliele a caro prezzo, a rigor di logica, dovrebbero essere state le omologhe americane, che in quel mercato hanno una posizione di quasi monopolio. Ora l’aspetto paradossale è che l’haircut greco non produce da contratto una liquidazione dei Cds, come ha già avuto modo di chiarire l’International swaps and derivatives association, l’associazione di categoria del mercato. Di conseguenza, i creditori di Atene si trovano ora esposti contemporaneamente a due tipi di titoli spazzatura: le obbligazioni greche, nella migliore delle ipotesi svalutate del 50%, e i Cds, strapagati eppure perfettamente inutili. Come a dire che le obbligazioni e le loro polizze assicurative sono diventate di fatto titoli tossici a pari merito.
Ma cosa accadrebbe se Atene rifiutasse l’accordo, uscisse dall’euro e dichiarasse bancarotta sulla falsariga dell’esperienza argentina? Non c’è ragione di dubitare che a quel punto i Cds sarebbero liquidati con il risultato di trasferire una parte consistente delle perdite dalla banche europee a quelle americane. Difficile, quindi, che gli inviati di Washington al G20 possano essere disposti a comprendere le ragioni della scheggia impazzita Papandreou.
Chi nel frattempo sembra aver già chiarito i propri sentimenti è la potentissima e corteggiatissima Cina. Il presidente Hu Jintao ha espresso oggi la sua posizione con poche ed eloquenti parole. “Crediamo che l’Europa abbia la saggezza e la capacità per risolvere questo problema del debito” ha dichiarato, scaricando di fatto ogni onere su Francia e Germania e lasciando le porte aperte ai suoi investimenti solo una volta che la situazione risultasse più chiara, stabile e definita. Pechino, insomma, sceglie l’attendismo e in fondo non c’è nulla di strano. Chi cresce ad un ritmo del 10% annuo sedendo contemporaneamente su una montagna di riserve da 3,2 trilioni di dollari può permettersi questo ed altro.