Francesca mi ha scritto stasera che era arrivata. Era emozionata: Berlino le sembrava fantastica, persino con l’inebriante odore di würstel. Anna la raggiungerà. Perlomeno è ciò che spero. Spero che quel suo tormentarsi fra l’andare e il restare si dilegui nel gesto di preparare un bagaglio, con cose che non saranno quelle giuste ma lo saranno abbastanza da spingerla a salire su di un aereo. Verso l’altrove.
L’altrove dalla stanchezza, dalla tristezza, dalla delusione, dal buio, dallo sconforto, dall’avvilimento, dalle umiliazioni. L’altrove oltre il confine italiano. In un posto qualsiasi che non sia tricolore e in cui, chiunque, possa aspirare a trovare la propria strada senza “padrini”, senza “madrine”, senza segnalazioni, senza raccomandazioni.
Ho conosciuto Anna, Francesca, Julia e Diego durante la campagna elettorale a sindaco di Milano di Pisapia. Ci siamo “incontrati” online, in una delle pagine che lo sostenevano e ci siamo “riconosciuti”, parlati, annusati e voluti un gran bene. La gran parte di noi non si è ancora abbracciata ma lo facciamo quotidianamente in qualche modo, parlandoci, scrivendoci, condividendo profumi e mangiate di caldarroste davanti a camini immaginari. Quando Anna sarà partita, solo Diego resterà in Italia. Per italica fortuna, perché qualche cervello deve pur restare.
Come restano Carlo e Marco, instancabili nella loro battaglia per veder riconosciuto il loro diritto a sposarsi. Loro che si amano da quasi vent’anni ne avrebbero più diritto di tutti. Ma l’Italia ha smesso da tempo di essere un paese di diritto e di amore. Marco è uno dei miei migliori amici. Lo amo come fosse un pezzo di carne mia rimasto a Napoli per continuare a farmene sentire l’immensa e disperante bellezza. La dolente bellezza. Quest’estate ci siamo abbracciati e sappiamo che il tempo è una variante accessoria per noi. Le catene dei nostri anni insieme, dei nostri sussurri e delle nostre grida, sono più forti di qualsiasi distanza.
Io sono andata via poco più di quattro anni fa. Non ho molti ricordi della partenza ma ricordo distintamente l’arrivo. Quasi notte, in un aeroporto semi deserto e la valigia smarrita e quell’aria afosa e umida, appena le porte del Jfk si sono aperte quasi a partorirmi alla mia nuova vita. Con dolore. Quando il tassista mi chiese che strada fare per arrivare al mio indirizzo, gli risposi: “Quella che preferisci”. Per me, poteva portarmi anche all’inferno. Avevo tanta paura di esserci. E dissi a me stessa: “Domani torno a casa”.
Ma non l’ho fatto e oggi mi sento a casa qui, senza rimpianti. Malinconie, certo. Soprattutto per i miei familiari. Paure, sicuramente. Per una vita sempre sospesa sul filo dell’incertezza. Ma anche molta felicità assaporata nella sfida quotidiana e condivisa con la mia famiglia di qui: gli amici e le amiche (99% americani) che mi hanno accolto, abbracciato e adottato impedendomi di sentirmi sola.
Ci vuole coraggio a restare, a scavare dentro se stessi per cercare la forza per combattere, scarnendo le proprie carni, sentendone il dolore e sopportandolo con fierezza. Ci vuole coraggio a restare, soprattutto se hai quell’età che è più vicino ai quaranta che ai trenta, e forse li supera, e allora ti senti doppiamente beffato perché sei trasparente, schiacciato fra quelli che di anni ne hanno molti di più e quelli più giovani, che amano il Renzi, e che sono pronti a considerare anche te come un cancro da estirpare. Te, che non sai cosa sia un posto fisso, un salario, un mutuo di una casa, perché lo schifo che esiste oggi è iniziato prima, molto prima, quando sarebbe stato il “nostro” turno e non lo è stato.
Ci vuole coraggio ad andare. A voltare le spalle a ciò che conosciamo e ci è familiare per l’ignoto, quello che mi accompagnò quella sera, mentre nel taxi mi avvicinavo a una casa che temevo potesse inghiottirmi senza che nessuno lo sapesse.
Ci vuole coraggio a essere italiani. Nel restare, così come nel partire. E questo, per me, dovrebbe essere per tutti profondo dolore.