Non c’è pace in Africa, dove, se non sono la fame e la carestia a mietere vittime, ci pensa la guerra. Mentre milizie keniote passano all’attacco contro i guerriglieri somali, la Somalia è messa in ginocchio da una carestia, la peggiore degli ultimi 60 anni. Ma c’è un altro paese, il Mozambico, che fatica a ritrovare una sua domestica quotidianità.
Fernando oggi è contento del suo stipendio di tassista da 2.900 meticals, che equivalgono all’incirca a cento dollari, e porta i turisti su una Toyota sgangherata a vedere la facciata della stazione ferroviaria, in stile Art Noveau, costruita nel 1910 dall’ingegnere Eiffel, oggi orgoglio di Maputo, la capitale del Mozambico.
Durante la guerra civile Fernando faceva invece il commesso, ma in realtà non c’era niente da vendere e da comprare. “Non sapevo come sfamare i miei figli, i cavoli si compravano a foglie, una sola tazza di riso, quando c’era, e si faceva la fila per comprare il pane”. Ma tutto sommato quelli che abitavano in città non se la passavano troppo male.
Dopo che i portoghesi lasciarono il Mozambico nel 1974, una sanguinosa guerra civile dilaniò il paese tra Frelimo e Renamo. I primi erano sostenuti dalla triade russo-cinese-cubana in un folle anelito marxista-colonialista. Il loro piano era lineare: i Portoghesi, in Angola e Mozambico, erano gli ultimi coloni imperialisti e sciovinisti. Spazziamoli via e sostituiamoci a loro, diffondendo il verbo di Lenin.
Dall’altra parte Rhodesiani e Sudafricani, ultra-razzisti, non dormivano la notte al solo pensiero di avere due governi marxisti alle porte di casa, temendo il contagio dell’ideologia nei paesi della segregazione razziale e di impronta capitalista. Gli americani, ovviamente, simpatizzavano dietro le quinte, proteggendo i propri investimenti nelle compagnie minerarie. La guerra esplode con ferocia tribale nelle campagne, risparmiando le città dai combattimenti.
Non è guerra di eserciti, ma di guerriglia, dove si mescola di tutto, banditi, predoni, razziatori, mercenari, delinquenti comuni, clan, che riescono a metter le mani sulle continue forniture di materiale bellico che arrivano alle due fazioni. Le campagne vengono infestate di mine anti-uomo, i villaggi incendiati. In breve il paese è nel caos. Non c’è più cibo. Si mangia tutto ciò che si muove. Anche gli elefanti. Anche le zebre. Anche i leoni. Si abbattono con gli AK47 russi.
I soldati, tutto sommato, sono quelli che se la passano meglio. Soprattutto per quelli che trasformano Gorongosa National Park, non lontano dal confine con lo Zimbabwe, in un immenso mattatoio, sterminando la fauna locale per sfamarsi. Gorongosa, da eden di 3.989 kilometri quadrati di riserva naturale (che ospitava un numero di animali superiore a quello del Kruger Park sudafricano), diventa la più grande macelleria a cielo aperto dell’Africa.
Dopo quindici anni di mattanza rimanevano 12 zebre (ce ne erano 3.300), 15 bufali (ce ne erano 13mila), 44 ippopotami (ce ne erano 3.500) e un solitario gnu (ce ne erano 6.400). Solo nel 2004 il filantropo naturalista americano Greg Carr non si tira indietro alla richiesta di aiuto dell’ambasciatore del Mozambico all’Onu e con un’iniezione di pronto cash di una quindicina di milioni di dollari riporta Gorongosa a nuova vita.
Adesso Maputo, benché la maggior parte degli abitanti viva ancora in baraccopoli, guarda al futuro: grandi palazzi, ministeri sfavillanti sul lungomare, un paio di shopping center nel quartiere elegante di Polana e due alberghi cinquestelle che ne fanno un po’ la Miami Beach del Terzo Mondo. Una compagnia cinese di trading sta già costruendo il suo quartiere generale, un grattacielo di 45 piani.
Intanto sulla bandiera nazionale, rossa, gialla e verde, fa ancora bella mostra di sé l’iconografia tradizionale, zappa e kalashnikov incrociati.
Il Kenya, invece, sembrava una meta sicura fino a qualche mese fa. Adesso spiaggie e villaggi turistici sono deserti. In Africa il fattore imprevedibilità gioca da padrone. Lo scorso anno uno studio legale di Milano era impegnato in elaborate negoziazioni per l’importazione di caucciù dalla Costa d’Avorio. Il giovedì si firmava il contratto. Due giorni dopo i carriarmati entravano ad Abidjan, la capitale, il primo ministro finiva in prigione, le strade si affollavano di profughi e venivano seminate di cadaveri, mentre il caucciù marciva nelle stive delle navi. Il tutto accadeva in 48 ore.
di Januaria Piromallo
Nella foto, Januaria Piromallo con alcune donne in Mozambico. Per ingrandire clicca qui