di Giovanni Pacchiano
Pubblichiamo oggi il primo articolo della rubrica ‘Il Romanzo’ che Giovanni Pacchiano ha iniziato a curare venerdì 4 novembre su Saturno. Il famoso italianista ha deciso di lasciare il Domenicale del Sole 24 ore per unirsi alla squadra di Saturno.
Ci sembrava che, dopo Via Gemito (2000, Premio Strega 2001), la narrativa di Domenico Starnone si fosse fatta un po’ opaca, come se l’autore cercasse un rinnovamento ancora irrisolto. Oggi, il suo nuovo libro, Autobiografia erotica di Aristide Gambía, appare un’autentica sorpresa: all’altezza del meglio (Svevo, Pirandello, Berto) dei nostri ultimi 100 anni di letteratura. Resterà. E non solo per il tono e il timbro originali del romanzo, per la capacità di narrare che ci conquista da subito, per l’ingegno di una costruzione a sorpresa, ma altresì per la scelta di un argomento, quello erotico, che nessun autore colto, in Italia, ha affrontato, nel Novecento e oltre, con tanta esplicitezza, costeggiando, senza mai oltrepassarlo, il limite dell’osceno. Reso arte dalla commistione di ironia, scavo nel profondo di sé, sfrontatezza e, per contro, pudore. Giacché è tutta una gamma di contrastanti sentimenti che, sulla spinta dell’empito erotico, sfilano nella trama, mescolandosi: il desiderio, soprattutto, e la voracità nei confronti di una vita piena che è lecito solo sognare; un’accesa carnalità ma anche la timidezza nei riguardi di quel pianeta straordinario e oscuro che appare la donna. E, ancora, il rimpianto per ciò che siamo stati e non siamo più; lo spaesamento di un settantenne come Aristide nei confronti delle nuove generazioni; il sentirsi adolescente dentro, specialmente di fronte a donne giovani e belle, ma vecchio fuori, spiazzato. Ciò che implica da parte sua una consapevole rinuncia. E il sogno, irrealizzabile, di un’eterna fusione – che prescinde da ogni età cronologica – col fantasma femminile; rimandando, con pathos, in diversi punti del libro, al rapporto primario con la madre.
Tutto questo è Aristide Gambía-Starnone. Certo, ci prende il sospetto, leggendo, che si tratti anche di un gioco dello scrittore, gioco verbale appassionante, specialmente nei dialoghi, fitti di termini non da educanda, della prima parte del libro («Una vecchia amica di Ferrara»), tuttavia gioco di uno spirito inquieto, che, persuaso dell’arte della parola come la forma più autentica-inautentica dell’essere, narra e insieme si narra, avviandoci su una pista, prima di decostruire e imbrogliare le carte (il lettore lo vedrà da sé, soprattutto nella parte finale, che riapre a sorpresa i punti cardine della storia). E però ritroviamo sotto il gioco un segno inequivocabile più fondo. Qui l’autore, edificato un grande romanzo sull’eros, ci conduce, infatti, ad ultimo, sopraggiunta la vecchiezza scortata dai debiti sintomi, a intuirne, al di là di ogni possibile copertura, l’invisibile gemello, thanatos, la morte, la fine.
Ma non c’è momento in cui non coinvolga e non sorprenda, tra sberleffo e malinconia, questo romanzo, colorito, picaresco, chiaroscurato. Ha 58 anni, nella prima parte del libro, Aristide: napoletano di modeste origini, trapiantato da 29 anni a Roma, che dirige il settore scolastico di una casa editrice. Sul lavoro, un uomo arrivato. Meno, nel turbinio degli affetti e delle frequenti avventure sessuali. Ha avuto una prima moglie, Nina, sposata giovanissima, che gli ha dato una figlia, e che lui ha tradito; una compagna, Stefania, dalla quale nascono due gemelle; e infine una seconda moglie, Leonora, da cui ora è separato, che gli ha fatto un figlio maschio. E, in mezzo, molteplici incontri: anche, ma non solo, di sesso: questi ultimi descritti nei minimi particolari fisici e con profluvio di umori, seminali e non, ma senza volgarità. Ora vive solo, Gambía, anche se ospita nel suo letto Lina, «una colta signora che gli voleva bene senza pretese». Ed è un caso, o un segno del destino, che un giorno riceva una strana lettera, da una certa Mariella Ruiz, scrittrice o sedicente tale, che asserisce di averlo conosciuto nel lontano 1965, a Ferrara, dove vive? Con dovizia di espressioni crude lei gli ricorda un film visto insieme, corredato da reciproche attenzioni erotiche, informandolo che verrà a Roma a trovarlo. Una storia di cui Gambía ha solo un vago ricordo.
Le giornate, emozionanti e fitte di contrasti, fra i due, all’insegna di un appagamento puntualmente rinviato, un moderno, sboccato intrigo amoroso giocato tutto sulle reticenze della donna ancor bella, maliziosa e riluttante a concedersi e a rivelare a Gambía un segreto che lo riguarda, occupano, come un piccolo romanzo a sé, e di colpo interrotto, le prime 132 pagine del libro. Senza affatto prepararci, volutamente, alla lunghissima seconda parte, «La bella compagnia delle donne» (pagg.135-378), che muta registro. Trasferendoci in un albergo di Sorrento, dove Aristide, ormai prossimo ai settanta, partecipa a un convegno sull’editoria, si fa prendere da fantasie, sessuali e non, su Magda, affascinante congressista, che l’ha notato, e perde il proprio diario, in cui racconta con ricchezza di particolari la storia della sua movimentata vita erotica con le donne, dall’infanzia al presente. Proprio Magda lo troverà per caso, leggendolo da cima a fondo (e noi con lei); attratta dall’anziano signore: come se, tuttavia, l’avesse, in un certo senso, ri-conosciuto… Mentre sono la terza parte, brevissima, «Mia madre», e la quarta, «Le irrintracciabili», dove Starnone – o il suo doppio letterario? – parla di sé e della creazione del suo romanzo, ma anche del nostro presente (con pagine indignate e ironiche su «questo Silvio Berlusconi», il grande seduttore), che districano molti nodi ma ne creano magicamente altri. Segni di un’opera mai chiusa, come l’irrinunciabile speranza di vita della vita.