La tesi del film: il debito pubblico non va pagato perché contratto contro gli interessi dei cittadini. E di conseguenza i diktat di Fmi e della Bce vanno rispediti al mittente senza troppi ringraziamenti
C’è chi dice che Debtocracy, il documentario greco prodotto con pochi fondi ma già visto da migliaia di persone in tutto il mondo attraverso internet, stia orientando il dibattito sulla crisi talmente tanto da aver indotto Papandreu a congelare il referendum sugli aiuti. La tesi del film è infatti semplice: il debito pubblico greco non va pagato perché contratto contro gli interessi dei cittadini. E di conseguenza i diktat draconiani del Fmi e della Bce vanno rispediti al mittente senza troppi ringraziamenti. Ma c’è dell’altro. Siccome una crisi mondiale non è mai un acquazzone imprevedibile, chi ne ha volutamente sottaciuto la portata può a buon conto essere considerato il più grande criminale della storia. E non solo perché la crisi l’ha di fatto arricchito, ma anche perché una tale mistificazione della realtà potrebbe avere ripercussioni apocalittiche. E allora chi sono i mandanti ed esecutori della crisi globale? E a chi vogliono farla pagare? E perché chi l’aveva prevista non è stato ascoltato?
Dal canto loro i detrattori di Debtocracy sostengono che gli autori, Katerina Kitidi e Aris Hatzistefanou, non diano spazio all’altra campana. Dunque la scelta di ascoltare Samir Amin, Costas Lapavitsas, David Harvey, Eric Toussaint, Manolis Glezos, Avi Lewis, Gerard Dumenil, Daniel Cohn-Bendit è la scelta di ascoltare storici, sociologi, economisti, giornalisti, scrittori, registi e medici le cui voci eretiche si avvalgono di analisi di lunga durata per capovolgere l’approccio. Vista dall’altra prospettiva, la crisi non è tanto un virus propagato da fantomatici speculatori-untori, né una calamità imprevista, bensì il risultato nefasto delle ricette economiche della trojka Bce, Fmi e Ue. Nonché del dogma neoliberista.
Infatti la crisi non ha inizio in America con il crack dei subprime e non si è affatto contagiata alla Grecia a causa della fannullaggine dei suoi cittadini. La crisi comincia nei primi anni Settanta, dopo la fine della cosiddetta “età dell’oro” del capitalismo, quando il sistema dei tassi fissi di Bretton Woods viene abbandonato a favore della più sfrenata finanziarizzazione. Da quel momento in poi i profitti drenano valore ai salari, anche grazie alla globalizzazione della produzione, la quale mette i lavoratori uno contro l’altro nel mercato internazionale. In questo scenario, però, l’accumulazione di benessere s’interrompe e i consumi calano. È allora che, per mantenere inalterato il potere d’acquisto e salvare i profitti, si inizia a fare credito a tutti: nasce così l’economia del debito, sia pubblico che privato. Il quale, in ultima istanza, si scarica sul mercato immobiliare.
Ma è ovvio che non può durare in eterno. Non appena la bolla immobiliare americana scoppia, la frittata è servita: si scopre un debito enorme sparso in tutto il mondo. A quel punto gli Stati usano la leva della fiscalità, ma i lavoratori sono già stati spolpati e la domanda non riparte. Ad essere salvate, inoltre, sono le banche, le quali però dichiarano guerra agli Stati di cui detengono i debiti. Ovviamente per salvaguardare i loro profitti e quelli di America e Germania. È l’Euro l’arma usata da Berlino per arricchirsi a discapito della periferie dell’Europa. Mantenendo inalterati i salari per un decennio, infatti, la Germania guadagna fette di mercato globale a scapito degli altri Paesi, nei quali l’aumento anche minimo degli stipendi significa una perdita di competitività. Si crea una periferia europea di stati a cui, essendo in vigore l’euro, è preclusa l’arma della svalutazione. Così il loro debito comincia a correre. E il cappio si stringe.
A stringere il cappio (e far stringere la cinghia) l’Fmi, la Bce, la Ue e le ricette neoliberiste. Non una novità, perché quest’ultime sono già state prescritte ad altri Paesi nel passato (e oggi, commissariata dal Fmi, anche all’Italia). Debtocracy ne descrive alcuni casi come l’Argentina, dove il presidente De la Rúa dovette scappare in elicottero dal tetto della casa Rosada. Oppure come l’Ecuador, dove gli emissari inviati dal Fmi furono cacciati malamente (per poi ripresentarsi in Grecia come se niente fosse). Ma non è la sola drammatica costante. Tutti i Paesi dove il Fmi ha preso in mano la situazione hanno visto la qualità della vita peggiorare drasticamente e la speranza di vita diminuire di cinque, dieci anni. Pagando altissimo in termini di rivolte sociali e povertà. Eppure l’Fmi, ostinato a salvaguardare i profitti delle solite elite, ha continuato a proporre le medesime ricette, nonostante le medicine non producano altro effetto che allungare l’agonia del malato, piuttosto che guarirlo.
Tuttavia dall’analisi al “che fare” il passo non è mai breve. Debtocracy ci prova proponendo di non pagare il debito, ma è su questo punto che il documentario alimenta dubbi e dibattiti. Perché il concetto di “debito odioso” è di difficile applicazione. È considerato “odioso” quel debito contratto all’insaputa e contro i cittadini, che il Diritto internazionale prevede possa non essere mai pagato. Si vorrebbe applicare questa misura al caso greco, come è capitato all’Iraq post Saddam e all’Ecuador con Correa (che dopo aver cacciato l’Fmi ha istituito una commissione e provato l’illegittimità del debito). Ma come far passare questa misura? Sappiamo che il Diritto internazionale si basa su un pacta sunt servanda i cui organi repressivi sono gli stati più forti. Infatti il debito odioso è sempre stato applicato quando faceva comodo a loro. E poi questo creerebbe un precedente, tanto che un giorno le nuove generazioni potrebbero rifiutarsi di pagare il debito contratto a loro insaputa da nonni spendaccioni. Come fare, dunque, per far pagare la crisi a chi ne ha beneficiato senza mandare in frantumi il mondo?