L'impianto, oggi gestito dal colosso francese Edf, ha operato per anni senza autorizzazione integrata ambientale. I dirigenti Arpab, arrestati, avevano ammesso già due anni fa di conoscere i dati sull'inquinamento, ma di non avere l'obbligo di diffusione. I comitati di cittadini: "Qui si continua a morire"
Ma Edf, il colosso francese che gestisce l’impianto, non ha nulla da temere. Perché Fenice risorge sempre, o meglio, non muore mai. Il termovalorizzatore di Melfi viene costruito negli anni ’90: sullo sfondo, due realtà lontane. Da una parte c’è la Basilicata, una delle regioni meno sviluppate del Meridione. Dall’altra la Fiat, che apre lo stabilimento Sata e crea 7mila posti di lavoro più l’indotto, oggi minacciati dalla cassintegrazione e dai piani di sviluppo di Sergio Marchionne. L’inceneritore nasce per smaltire i rifiuti prodotti dallo stabilimento automobilistico ed entra in funzione nel 2000: al suo interno due forni, uno rotante dalla capacità di 35mila tonnellate l’anno per i rifiuti industriali pericolosi, e uno a griglia da 30mila per i rifiuti solidi urbani ed assimilati. Nel 2001, la Fiat vende lo stabilimento al colosso francese Edf ma già dall’anno prima Fenice opera senza essere in possesso dell’autorizzazione integrata ambientale: al suo posto solo un’autorizzazione provvisoria della provincia di Potenza, che rimarrà “provvisoria” per dieci anni. Nonostante le diverse segnalazioni di malattie e tumori fatte dagli abitanti di Lavello e dei comuni limitrofi all’inquinatore, le autorità non impongono la chiusura dell’impianto. Neanche “provvisoriamente”.
Se il termovalorizzatore non fosse mai stato oggetto di contestazione, nulla quaestio. Il punto è che nel 2009, a protestare per l’inquinamento delle falde acquifere sottostanti, è proprio Fenice: dopo un rilievo dell’Arpab nei suoi pozzi di emungimento interni, la stessa impresa si autodenuncia. Inquinanti, metalli pesanti e cancerogeni come nichel, manganese, mercurio, arsenico e voc (composti organici volatili): a Melfi si istituisce una conferenza di servizi per affrontare il problema dell’inquinamento, a cui ne seguiranno altre quattro. A ottobre 2009, l’ex direttore dell’Arpab Vincenzo Sigillito – uno dei due arrestati – dichiara di aver comunicato alle procure di Potenza e di Melfi che su Fenice non vi sono dati certificati negli anni 2002, 2003, 2004, 2005, 2007. In un’intervista successiva, Bruno Bove dell’Arpab – il secondo arrestato – ammette: «L’Agenzia era a conoscenza dell’inquinamento fin dal 2006, ma non eravamo tenuti a comunicarlo pubblicamente». I panni sporcati dall’acqua contaminata è meglio lavarli in famiglia.
A marzo 2011, non paga dei danni a cui ancora non si è posto rimedio, Fenice chiede di aumentare la quantità di rifiuti urbani da bruciare, passando da 30 a 39mila tonnellate l’anno. Sull’episodio del 2009 Fenice Ambiente fa sapere che «le sorgenti di contaminazione sono state individuate ed eliminate. Dall’autodenuncia del 2009 ad oggi sono stati spesi 3,5 milioni di euro ed il processo di bonifica è in corso nei termini di legge». Quindi, la bonifica non è ancora stata completata. E sono previsti costi, per finire il lavoro, per altri 30 milioni . Come può allora Fenice richiedere di ampliare la quantità di rifiuti smaltiti?
Non solo. L’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) nel rapporto 2010 indica come Fenice abbia bruciato ben 977 tonnellate di rifiuti sanitari pericolosi nel 2008: la provincia di Potenza quest’anno ha ammesso in una nota ufficiale che «l’impianto non era autorizzato a trattare i rifiuti sanitari». Il 16 settembre scorso, a ridosso di una manifestazione indetta dai cittadini del “Comitato diritto alla salute”, l’Arpab pubblica finalmente i dati della contaminazione causata dall’impianto: documenti che erano stati chiusi in cassaforte per diversi anni.
Mentre in questi giorni viene istituita una nuova commissione d’inchiesta della Regione sui danni provocati da Fenice, Giannino Romaniello (Sel), presidente della commissione regionale precedentemente istituita per lo stesso obiettivo, sentenzia: «Sicuramente posso affermare che Fenice ha violato alcune norme di legge, ha avuto un comportamento tendente a occultare dati, ha gestito l’impianto con scarsa attenzione alla salute dei lavoratori e non ha effettuato con diligenza e costanza verifiche e manutenzioni ad impianti ed attrezzature». Ma se chiudesse Fenice, Edf subirebbe un danno d’immagine rilevante – difficile credere poi che il colosso francese se ne andrebbe in punta di piedi – e la Fiat sarebbe tentata dalla dismissione completa del suo impianto. E in Basilicata l’occupazione gode di pessima salute. Come molti lucani che vivono nei pressi di Melfi.
Gianluca Schinaia – FpS Media